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Giorgetti

Vi racconto i primi flop di Enrico Letta nel Pd

Sono almeno due le prime scommesse perse di Enrico Letta come segretario del Pd. I Graffi di Damato

 

Non sono ancora passati due mesi dalla sua elezione a segretario del Pd, il 14 marzo scorso, richiamato in tutta fretta dal suo “esilio” accademico a Parigi per sostituire Nicola Zingaretti, rosso di vergogna dichiarata per il poltronificio a cui aveva ridotto il partito, ed Enrico Letta già appare più logorato del suo predecessore. Egli ha perduto entrambe le scommesse fatte con una certa imprudenza al ritorno dalla Francia.

La prima scommessa è stata quella contro Matteo Salvini, proponendosi di contestarlo sino a provocarne l’uscita dalla maggioranza di emergenza realizzata da Mario Draghi, su impulso di Sergio Mattarella al Quirinale, dopo l’autoaffondamento del secondo governo di Giuseppe Conte: altro che il complotto lamentato dai nostalgici del professore.

Nella sua ossessione antileghista Letta è arrivato ad essere più realista del re sul terreno oggettivamente impopolare della difesa di un coprifuoco che Draghi per primo aveva avvertito di poter cambiare anche a breve, come sta per avvenire.

Trovo di particolare efficacia la rassegna degli scontri verbali fra Letta e Salvini che Mattia Feltri ha offerto oggi ai lettori della Stampa, e del Secolo XIX, per concludere a “fantastica dimostrazione di come a volersi distinguere a tutti i costi, va a finire che non si notano le differenze”, confondendo per felpe anche gli abiti del segretario del Pd, generalmente più sobri e meno militareschi o palestrati di quelli del “capitano” leghista.

L’altra scommessa di Letta, ancora più rovinosa, della prima, è quella sulla capacità di Giuseppe Conte non dico di rifondare il MoVimento delle 5 Stelle su incarico personale di Beppe Grillo, ma almeno di rimettere un po’ d’ordine e di moderazione in quel casino -scusate il termine-che esso è diventato, peggiorando peraltro dopo le difficoltà familiari del “garante”, “elevato” e quant’altro.

L’ultima fregatura, chiamiamola così, Conte l’ha data a Letta non sostenendo ma rilanciando la ricandidatura di Virginia Raggi a sindaco di Roma per le elezioni d’autunno. Eppure il segretario del Pd si era spinto ad offrire praticamente la presidenza della regione Lazio ai grillini in cambio del passaggio dell’attuale presidente Zingaretti al Campidoglio, dando peraltro per scontato imprudentemente il consenso degli elettori.

Lo smacco inferto da Conte a Letta sulla scalinata capitolina, e destinato a ripercuotersi nelle altre città dove si voterà in autunno e il segretario del Pd pensava di fare accordi con i grillini, ha imbaldanzito a tal punto la Raggi da farle dire in una intervista oggi alla Stampa che sarà, testualmente, “la candidata di tutti, anche di chi vota Pd”. E dovrebbe invece votare per il candidato sostanzialmente di ripiego di Letta, che è l’ex ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, già insidiato nella sua area, chiamiamola così, dall’attivissimo Carlo Calenda.

Se non è una débacle questa di Enrico Letta, poco ci manca, obiettivamente. E a fargli drizzare i capelli che non ha non occorre neppure che torni a scomodarsi quell’impertinente di Matteo Renzi per invitarlo a “stare sereno”, come fece alla fine del 2013 accingendosi a scalzarlo da Palazzo Chigi.

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