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Conte

Vi racconto i dolori di Conte nella tenaglia Renzi-Di Maio

Conte ha fatto il "miracolo" di ricompattare l’opposizione del centrodestra, nel giorno stesso in cui il cosiddetto socio della sua maggioranza Matteo Renzi completava a Firenze i riti leopoldini della formazione della sua Italia Viva. I Graffi di Damato

 

Nei primi 45 giorni di vita del suo secondo governo Giuseppe Conte non è riuscito ad avere con i suoi alleati migliore fortuna che nel primo. I rapporti nella maggioranza giallorossa sono persino peggiori di quelli vissuti da Conte nella maggioranza gialloverde, sfociati in quel mezzo processo del 20 agosto nell’aula del Senato al vice presidente leghista del Consiglio e ministro dell’Interno Matteo Salvini.

Allora le difficoltà col “capitano” della Lega erano almeno compensate da una prevalente sintonia di Conte col proprio partito di riferimento e di designazione, cioè il Movimento delle 5 Stelle. Che non aveva scaricato il professore neppure nei tre passaggi in cui più clamorosamente lo aveva praticamente smentito: in ordine cronologico, sul ridimensionamento del deficit nel bilancio del 2019 per evitare la bocciatura dell’Unione europea, per cui il 2,4 per cento di disavanzo rispetto al pil festeggiato sul balcone di Palazzo Chigi dal vice presidente leghista del Consiglio e pluriministro Luigi Di Maio divenne il 2,04; sullo sblocco della Tap, cioè il gasdotto proveniente dal Mar Caspio con approdo pugliese, e su quello della Tav, la linea di trasporto ferroviario ad alta velocità delle merci tra la Francia e l’Italia.

Sì, d’accordo, sulla Tav i grillini mostrarono di non stare al gioco, o al ripensamento, di Conte presentando al Senato una mozione ostinatamente contraria all’opera, ma sapendo in partenza che sarebbe stata bocciata, e Conte fingendo che non ce l’avevano con lui, a tal punto da non presentarsi neppure in aula quando fu discussa. Egli lasciò che il governo esprimesse parere contrario all’opera con un sottosegretario grillino e favorevole con un sottosegretario leghista. Fu una cosa mai vista in passato, che Salvini, pur stando una volta tanto dalla parte di Conte, evitò clamorosamente di usare come occasione o ragione per la crisi, preferendo provocarla poco dopo qualche giorno su un altro terreno e perdendo la partita.

Col suo secondo governo, e – ripeto – in soli 45 giorni, Conte è riuscito, volente o nolente, a spaccare il Pd, spingendo Matteo Renzi a uscirne, o ad accelerare la già progettata scissione, e persino i grillini. Che sono divisi fra un Luigi Di Maio sempre più insofferente verso il presidente del Consiglio e non si è ancora ben capito quanta parte dei gruppi parlamentari tentata di schierarsi apertamente col professore nelle controversie finanziarie.

Ha avuto un bel dire Conte a Perugia partecipando alla campagna elettorale per le regionali umbre di domenica prossima – di cui peraltro ha voluto allo stesso tempo testimoniare l’importanza ed escludere un valore di test per la maggioranza giallorossa riprodottasi sul posto attorno ad una candidatura civica alla presidenza – che “chi non fa squadra è fuori dal governo”. Sono state e sono parole francamente al vento, pronunciate peraltro dopo che lo stesso Conte aveva dovuto accettare la richiesta di un vertice della maggioranza avanzata da Di Maio come capo ancora del suo movimento dopo un incontro con i ministri pentastellati. Che il capo ancòra del movimento aveva chiamato a rapporto per farsi raccontare bene, per filo e per segno, la riunione del governo sulla manovra finanziaria approvata con “riserva d’intesa”, cui lui non aveva potuto partecipare perché impegnato col capo dello Stato nella visita alla Casa Bianca.

Non deve essere stato, quello, un bel rapporto se ad un certo punto il ministro degli Esteri, secondo indiscrezioni uscite su tutti i giornali e non smentite, ha avuto da ridire su una specie di relazione privilegiata instauratasi fra il presidente del Consiglio e i ministri del Pd capeggiati come delegazione da Dario Franceschini. Che non a caso, del resto, è stato il più risentito di fronte alle proteste levatesi dallo stesso Di Maio e da Matteo Renzi, cui ha detto -non mandato a dire- che “un ultimatum al giorno toglie il governo di torno”.

Se ci dovesse essere una crisi, ha contemporaneamente avvertito il segretario del Pd Nicola Zingaretti, con un monito attribuitogli dai giornali senza uno straccio di smentita o precisazione, si andrebbe dritto alle elezioni lasciando a Palazzo Chigi Conte, sempre lui, che però diventerebbe a quel punto, il candidato premier dello stesso Zingaretti per la prossima legislatura. Siamo, quindi, già a questo livello di rapporti, cioè di tensioni, nella maggioranza giallorossa ancora in fasce.

In questa situazione si capisce la delusione del direttore del Corriere della Sera Luciano Fontana. Che, diversamente dalla rassegnazione di Eugenio Scalfari, su Repubblica, a vivere in “un Purgatorio senza Paradiso”, si è chiesto se “si può continuare così”. E, di fronte ad “uno spettacolo per alcuni aspetti suicida” ha smesso di elogiare o scommettere sulle doti di “mediatore” del presidente del Consiglio, al quale piuttosto ha rimproverato di avere annunciato “una rivoluzione che non c’è” con la manovra finanziaria contestata, evidentemente non a torto, o almeno non del tutto a torto, da Di Maio e Renzi.

Ancor più si capisce, sempre in questa situazione, come e perché Silvio Berlusconi, spiazzando fra i suoi forzisti sia chi aveva tentato – come Gianfranco Rotondi – di offrire un gioco di sponda a Conte per consentirgli di durare, sia chi aveva rifiutato di accorrervi, si sia affrettato a saltare sul palco di Piazza San Giovanni, a Roma, per ricostituire nel modo più visibile possibile l’unità del centrodestra di fronte ai duecentomila manifestanti accorsi da ogni parte d’Italia all’invito di Salvini. Che ha sventolato l’”orgoglio italiano” nell’assalto mediatico, parlamentare ed elettorale, almeno quello a livello regionale non procrastinabile, contro quello che il Cavaliere ha chiamato lo schieramento “delle cinque sinistre”. Egli ha visto e indicato la presenza anche della “sinistra giudiziaria”, accanto ai grillini, piddini, renziani e bersanian-dalemiani.

Conte ha insomma fatto il miracolo di ricompattare l’opposizione del centrodestra, peraltro nel giorno stesso in cui il cosiddetto socio della sua maggioranza Matteo Renzi completava a Firenze i riti leopoldini della formazione della sua Italia Viva vestendola di un simbolo, o bandiera, e faceva liquidare anche lui il Pd, al pari del Cavaliere, come “il partito delle tasse”.

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