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Tunisia

Tutti i sinistri turbamenti di M5s e Pd

Che cosa succede nel Movimento 5 Stelle e nel Pd. Il commento di Gianfranco Polillo

Com’era forse prevedibile, la crisi dei 5 stelle sta avendo una virulenza che è pari solo alla variante inglese del Covid. Con il passare dei giorni quella che, all’inizio, sembrava una semplice dissidenza, facilmente controllabile, sta operando come un fastidioso bradisismo. Colpa di chi, con eccessiva leggerezza, ha usato il pugno duro contro coloro che non avevano accettato la ragion di stato. Far finta cioè che tutto quello che era stato detto e praticato, in precedenza, potesse svanire nell’approdo a quel liberalismo, un po’ farlocco, di cui ha parlato Luigi Di Maio, nell’intervista a Repubblica. Sale sulle ferite per molti attivisti.

Con un pizzico in più di esperienza si poteva evitare tutto ciò. Capire che quel 40 per cento di militanti che si era espressa contro la scelta di Mario Draghi dovevano, comunque, avere diritto di cittadinanza. Innanzitutto perché questa è la regola in voga in quasi tutti i partiti. Si pensi solo ai repubblicani americani, con Trump. Quindi perché il dissenso non era stato marginale. E quando le cifre raggiungono quelle dimensioni, allora un qualsiasi gruppo dirigente, dotato di un minimo di lungimiranza, non caccia la gente. Ma si interroga e cerca di recuperare. Se non altro per evitare che intorno ai fuoriusciti si possa organizzare la massa degli scontenti. Che è quello che sta avvenendo.

Il progressivo smottamento, che arriva fino a sfiorare i vertici del movimento, altro non è che il riflesso di quella forza gravitazionale. Poi ognuno ha i suoi motivi specifici. Ed ecco allora chi non ha condiviso la svelta dei ministri. Chi ha visto nella scelta dei sottosegretari solo una becera logica di corrente. Chi conta le cordate e si rammarica per non farne parte. Quando viene meno un minimo di stella polare, che può essere la politica, una speranza di futuro, o qualsiasi altro appiglio, è la semplice legge della giungla a prevalere.

Spettacolo indubbiamente poco edificante. Lo hanno notato osservatori indipendenti. Ma non è nemmeno sfuggito alla galassia del Pd. L’interrogativo che risuona è poco lusinghiero: ma veramente la nostra strategia si risolve tutta nel privilegiare l’alleanza con questi qui? Se non stanno in piedi con le loro gambe, che affidamento possono dare? Ed ecco, allora, che la vecchia idea di Nicola Zingaretti di essere il centro del centro è un po’ caduta come una pera matura.

È prevedibile che Goffredo Bettini non demorderà. Continuerà a ritenere che dal centro, ma con una copertura a sinistra, si governi il mondo. Era la vecchia idea dei comunisti d’antan. Pas d’ennemis à gauche. Quindi il rapporto con Leu va mantenuto anche al di là della loro consistenza numerica. Come va mantenuto un rapporto preferenziale con Andrea Orlando, che diventa ministro del Lavoro e delle politiche sociali, dopo esserlo stato alla Giustizia ed all’Ambiente nei precedenti governi. Un vero e proprio jolly. Ma anche inamovibile vice segretario del partito, perché leader della componente di sinistra, in quel groviglio di correnti, che è il vero assetto del Pd.

La cosa, ma anche questo è un segno dei tempi, non è passata inosservata. Le proteste più veementi da parte delle donne del Pd. Fino a ieri corteggiate dallo stesso Zingaretti, per mantenere un minimo di tensione ideale. Solo Mario Draghi ha avuto il coraggio di parlare di “farisaico rispetto delle quote rosa”. Poche le obiezioni, data la levatura della persona. Cosa che invece non è stata perdonata a Zingaretti. Ma come – la critica – quando Paola De Micheli è diventata ministra si è dovuta dimettere da vice segretaria ed invece Orlando porta a casa capra e cavoli! Risposta imbarazzata della segreteria che non spegne il brusio di disapprovazione.

Perché intanto sono le altre correnti a sollevare la testa. Ed ecco allora il tentativo di Lorenzo Guerini, il ministro della Difesa, che cerca di canalizzare il dissenso verso uno sbocco politico. La richiesta di un congresso, da mettere in cantiere il prima possibile, per tentare di dare un volto al partito, invece di logorarlo nella sola ricerca delle possibile alleanze. Critica che, da parte dei sindaci più legati a Matteo Renzi, diventa ben più dirompente. Al punto da spingere il segretario del Partito agli opportuni rimaneggiamenti in segreteria. Per dare più peso alla voce dei sindaci amici ed, al tempo stesso, contrastare la possibile ascesa di Stefano Bonaccini.

Ma dove Goffredo Bettini deve aver masticato amaro, è stato nel leggere l’intervista di Mario Tronti (il Riformista), che pure gli riconosce un qualche merito. Ma parlando di politica e non di teoria, il vicolo cieco del PD è risultato evidente: “In effetti l’attuale ceto politico della sinistra dà l’impressione che fuori dai Palazzi si trovi come un bimbo sperduto tra la folla. Non sa più che fare, non sa più dove andare”. Ed ancora: “Il problema non è il governo. Il problema è il governo a ogni costo. Con qualunque minestra che passa il convento. Se il Pd non si scrolla di dosso questa sola immagine del più affidabile degli establishment non andrà lontano. Rimarrà quello che è, e quello che sono le attuali sinistre cosiddette riformiste europee, una minoranza illuminata non riconosciuta, anzi disconosciuta, e deprecata, dalla maggioranza dei loro popoli”.

C’è poi alla fine un piccolo mistero, che riguarda il prosieguo dell’intervista. Un riferimento ellittico: “Per spendere bene le risorse prossimamente disponibili – continua il teorico dell’operaismo del tempo che fu – ci vuole un sicuro comando centrale, con l’autorevolezza per usare le necessarie competenze, ma davvero si pensa di affidare la ricostruzione del dopoguerra pandemico a questo signor Nessuno che briga tutto il giorno per diventare Qualcuno? Si licenzi questo intruso”. A chi si riferiva? Non è dato da sapere. Ma la caccia al personaggio non è difficile.

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