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Tunisia

Tutti i limiti logici dell’opposizione sull’assistenza ai poveri

I partiti di opposizione sembrano non voler garantire ai più poveri una prospettiva di riscatto effettivo, ma una benevolenza pelosa. L'analisi di Gianfranco Polillo.

Non è facile, almeno per quanto ci riguarda, seguire il filo logico dei ragionamenti delle principali forze politiche italiane, oggi all’opposizione. Considerato solo che quei partiti sono stati i principali artefici dell’azione di governo, in quel lungo intervallo di tempo, che va dal 28 aprile 2013 allo scorso ottobre. Certo: le formazioni, nella loro composizione, sono mutate; ma se si esclude la stagione del Governo giallo verde, il segno della continuità risulta essere prevalente. Anche se, ed è qui una delle principali differenze con la Prima Repubblica, le loro basi programmatiche si sono mostrate molto più fragili. Allora i vari esponenti della DC si accapigliavano, i Governi duravano in media 12 mesi, ma l’indirizzo di fondo era quello che aveva accompagnato tutte le grandi trasformazioni socio-economiche del Paese.

C’è quindi una fraglia tra quel passato e le indubbie incertezze del presente? Cercare di venire a capo del problema, comporta innanzitutto una scelta di metodo. Secondo il Fondo monetario, il Pil pro-capite italiano, lo scorso anno, è stato pari 33.740 dollari. Due volte e mezzo il reddito medio mondiale. Valore che ha collocato l’Italia al 31° posto di un ranking composto da 192 nazioni. Quei valori risentono tuttavia di variabili monetarie (come il rapporto euro – dollaro) che possono indurre in errore. Lo stesso reddito, infatti, misurato in termini di diversità del potere d’acquisto aumenta ad oltre 51 mila dollari, mentre l’Italia retrocede di due posizioni. Collocandosi al di sotto del reddito medio pro-capite europeo, valutato in 56.160 dollari.

In questo secondo “girone”, secondo i dati di Eurostat, l’Italia, con un reddito pro-capite (2021, ai prezzi del 2010) pari a 26.700 euro occupava, nel 2021, l’11° posizione. In testa a tutti il Lussemburgo e l’Irlanda, dati falsati dalla presenza di grandi multinazionali, seguiti quindi da un buon numero di Paesi “frugali” (Olanda, Danimarca, Finlandia, Svezia, Austria), e subito a ruota da Belgio, Germania e Francia. Già il fatto di far parte di questo club dovrebbe, in qualche modo, tranquillizzare. Anche se le perdite di posizioni nel tempo si sono fatte sentire. Gli ultimi dati mostrano infatti un valore inferiore del 13 per cento al reddito medio dell’Eurozona, quando all’inizio del Terzo millennio il vantaggio era superiore al 3,5 per cento.

Dati questi elementi, è difficile immaginare che, oggi, il problema principale, in Italia, possa quello degli eccessi negativi della redistribuzione del reddito, tale da produrre una schiera crescente di poveri. Che ovviamente esistono, ma sono la conseguenza di cause ben diverse.

In genere fenomeni del genere si accompagnano a livelli di reddito pro-capite molto più bassi, caratterizzati da una presenza molto più contenuta di “middle class”. La cui crescita, come mostra l’esperienza storica, presuppone sempre (ultimo caso, la Cina) un adeguato livello di sviluppo economico. Ma se si vuole essere più tranquilli basti considerare il peso del carico fiscale: elemento di riequilibrio rispetto alle normali tendenze del mercato. Nell’Eurozona, l’Italia si colloca al 4° posto, con un carico fiscale pari al 43,4 per cento del Pil. Preceduta solo dalla Francia (47 per cento del Pil), quindi dal Belgio (45,4 per cento) e dall’Austria (43,7 per cento). Dati che dovrebbero tranquillizzare.

Molto meno, invece, la tendenza che si è verificata nel Pil pro-capite italiano: in forte contrazione rispetto alla media dell’Eurozona. Con quella perdita, indicata in precedenza, di oltre il 16 per cento, nell’arco di un ventennio. E che trova piena giustificazione nel mancato ritmo di sviluppo di lungo periodo. Solo in questi ultimi 11 anni (2010-2011) il tasso medio di decrescita annua dell’economia reale è stato pari allo 0,1 per cento, collocando l’Italia nella penultima posizione. Migliore solo della Grecia che ha chiuso quel periodo con una caduta pari all’1,4 per cento.

I dati riportati dovrebbero segnare, in qualche modo, l’agenda politica. Circoscrivere il terreno del possibile confronto con l’obiettivo di raggiungere un migliore equilibrio complessivo, al fine di combattere il pericolo, così evidente, di un possibile ulteriore declino. Essendo consapevoli del fatto che solo rimettendo in moto l’economia è possibile garantire alla società quel livello di benessere individuale e collettivo che, in questi anni, è andato smarrito.

Ed invece, soprattutto da parte delle opposizioni, ma con qualche smagliatura anche tra quelle della coalizione governativa, il silenzio è assordante. E lo è soprattutto a causa della competizione che si è aperta tra i diversi protagonisti nel cercare di allargare il proprio spazio di mercato, tentando di far leva sulla rappresentanza più diretta ed immediata degli outsider. Di coloro cioè che sono ritenuti essere i paria della società italiana.

Ed ecco allora il richiamo continuo ai più deboli, ai fragili, ai poveri: ai quali garantire non una prospettiva di riscatto effettivo, ma una benevolenza pelosa. Un’elemosina – tutto l’assurdo dibattito sulle accise delle benzine – caritatevole, nella speranza di “comprare” il loro assenso.

Da un punto di vista sociologico i cambiamenti che sono intervenuti rispetto a qualche anno fa sono impressionanti. Durante il periodo “fordista”, caratterizzato dalla centralità della “classe operaia”, il riferimento non erano i bisognosi. Ma un soggetto sociale, come la classe operaia appunto, che non aveva bisogno di elargizioni, ma solo di far valere i propri diritti. Farla crescere, sia sul piano numerico o dal punto di vista delle retribuzioni e del potere, significava infatti sviluppare le industrie, aumentare la produzione e di conseguenza il prodotto nazionale. Esisteva, in altre parole, un rapporto biunivoco che legava gli interessi di quei ceti ad una prospettiva di crescita più complessiva. E di conseguenza ad una politica economica che aveva il compito di difendere un equilibrio di carattere più generale.

Che cosa è cambiato da allora? Le direttrici dello sviluppo: verrebbe da rispondere. Oggi è soprattutto la scienza e la tecnica che ne hanno assunto il controllo. La vecchia identificazione del bel tempo andato non esiste più. Anche perché gli operai, che in una realtà come quella italiana ancora esistono, si sono rivolti altrove. Alla ricerca di nuovi rappresentanti. Non certo tra i teorici del parassitismo di Stato. Queste trasformazioni morfologiche, che hanno portato ad un nuovo paradigma, tuttavia, non hanno fatto venir meno le vecchie regole di base. Le hanno rese solo più complesse. Non più identificabili con gli interessi di un solo gruppo sociale, ma con strati diversi della società: non solo i “vecchi” ed i “nuovi” lavoratori, ma tutti coloro le cui sorti sono intimamente legate ad una ripartenza dell’ascensore sociale. Che, a sua volta, dipende in misura consistente dal ritmo e dal respiro dello sviluppo economico generale.

Ma i deboli, i poveri, i fragili: che fine fanno? Vanno ovviamente assistiti. Ma la loro difesa, nel tempo, è indissolubilmente legata al tasso di crescita complessivo dell’economia. Se le fonti del benessere inaridiscono, alla fine, il conflitto redistributivo assumerà la forma di una guerra senza quartiere. Ed a rimetterci saranno proprio i ceti più deboli, come si è visto in questi ultimi anni. Per evitare che questo avvenga è necessario ricostruire, in termini politici, un rapporto più o meno simile a quello che era tipico della società fordista. In cui l’elargizione del principe non poteva essere tale da mettere in discussione quel patto sociale su cui si fondava l’intera società.

Prevaleva, allora, quel ragionamento circolare che raccordava bisogni illimitati con risorse che, invece, non lo erano. E che, di conseguenza, andavano create. L’esatto contrario di quanto avviene oggi in gran parte delle forze di opposizioni italiane – si pensi solo al reddito di cittadinanza – del tutto insensibili ad ogni richiamo, che non sia il vano tentativo di guadagnare, in termini di consenso, un pugno di voti. A danno di un elettorato, per fortuna, molto più smaliziato.

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