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Tutti i balletti fra Trump e Conte su Huawei, Nato, dazi, web tax e Libia

Che cosa hanno detto e che cosa si sono detti il presidente americano Trump e il premier Conte. L'approfondimento di Marco Orioles

Nell’era di Donald Trump, si sa, i summit internazionali rappresentano un bel grattacapo per i leader mondiali chiamati a interloquire con il presidente più imprevedibile, istrionico ed irascibile della storia recente.

Il vertice di Londra per i 70 anni dell’Alleanza Atlantica di lunedì e martedì non poteva ovviamente fare eccezione. Non c’è d’altronde, per The Donald, argomento più contundente dell’insufficiente burden sharing in seno alla Nato (e stavolta l’aggettivo riservato dal presidente ai partner è stato delinquent”) e niente consente al tycoon di sfoderare al meglio la sua vis polemica del braccino corto di presunti alleati come la Germania, rea di scroccare sicurezza al gendarme d’oltreoceano oltre che – per usare l’espressione che Trump riservò tempo fa alla Cina – di “stuprare” l’economia a stelle e strisce con un export debordante.

Anche stavolta, dunque, il dialogo transatlantico si è trasformato in una mezza rissa, culminata con la repentina cancellazione della conferenza stampa conclusiva del capo della Casa Bianca, irritato per il video pirata in cui il premier canadese Justin Trudeau, in compagnia del collega britannico Boris Johnson, ha usato parole ben poco lusinghiere nei confronti del presidente Usa.

E che dire del duro botta e risposta tra lo stesso Trump e il presidente francese Emmanuel Macron, crocifisso a più riprese dall’amerikano per quelle due imperdonabili offese incarnate rispettivamente dalla web tax contro Big Tech, di cui Macron è il principale sponsor, ma anche per quell’intervista di due settimane fa all’Economist (che Trump a Londra ha definito very insulting) in cui il n. 1 di En Marche ha definito “brain-dead” la Nato e auspicato un’Europa “potenza geopolitica”?

In simili circostanze, che autorizzano ogni Cassandra a formulare la sua profezia sull’imminente o addirittura già consumata fine dell’ordine multilaterale a guida euroatlantica, spicca come luminosa eccezione il trattamento riservato dal bizzoso presidente Usa al nostro premier Giuseppe Conte.

Non c’è stato, per il capo del governo italiano, solo l’affettuoso passaggio nella limousine di The Donald e consorte diretta a Buckingham Palace per la cena dei leader offerta dalla Regina Elisabetta. C’è stato, soprattutto, un lungo bilaterale concluso da una conferenza stampa congiunta nella quale la coppia ha potuto esibire ai reporter quella amorevole sintonia che sin dal primo minuto ha caratterizzato il loro rapporto.

Del suo “buon amico” Conte, così’, Trump ha voluto sottolineare che “sta facendo un fantastico lavoro, è diventato molto popolare in Italia e non sono sorpreso di questo”. La replica del giurista pugliese è arrivata sotto la forma di un ringraziamento sincero per le belle parole riservategli dal collega. «Stiamo facendo un grande lavoro insieme”, ha rimarcato Conte, “come alleati e amici».

Dietro le effusioni, in realtà, si cela più di qualche attrito tra due Paesi che hanno accumulato diverse incomprensioni negli ultimi tempi. Sul 5G, ad esempio, non sono mancate le ambiguità, visto che Trump a Londra in un primo momento aveva fatto intendere di “aver parlato con l’Italia” del 5G e di aver quindi convinto Conte a non affidare a Huawei la realizzazione in Italia della rete mobile di quinta generazione.

È stato, questo, il momento più imbarazzante per il premier, costretto prima frettolosamente a smentire –  “Non ho trattato questo tema con Trump” – e poi a precisare meglio i contorni della conversazione avuta col tycoon.

«Abbiamo chiarito», ha dichiarato Conte, che «l’Italia non può sfilarsi da una tecnologia». Traduzione: noi si va avanti anche con Huawei. Ciò detto, l’avvocato degli italiani si è affrettato a spiegare al suo interlocutore “che l’Italia ha una legislazione tra le più avanzate d’Europa (…) che sarà un modello per gli altri. Applicheremo quella normativa e quei controlli e questo ci garantirà per quanto riguarda la protezione di tutti gli asset strategici e da qualsiasi pericolo sul piano della cybersecurity».

Quella di Conte nei riguardi del preoccupato alleato d’oltreoceano voleva, insomma, essere una rassicurazione che – per dirla ancora con le parole del premier – “davanti a qualsiasi richiesta che proponga una tecnologia 5G (l’Italia ha) un perimetro di sicurezza cibernetica e una struttura operativa che indagheranno sulle singole richieste”, scongiurando così i rischi paventati da Washington.

Ma se l’intento contiano voleva essere di chiudere la questione una volta per tutte, siamo decisamente fuori strada. Nella notte, il ben informato Giuseppe Sarcina del Corriere della Sera poteva infatti scrivere che “il Pentagono, il Dipartimento di Stato e il Consiglio di sicurezza nazionale non sono affatto convinti che le contromisure adottate dal governo italiano siano sufficienti per mettere al riparo il sistema delle comunicazioni italiane da possibili azioni di spionaggio cinese”, aggiungendo poi che “i generali e i servizi segreti degli Stati Uniti (…) sono pronti a tagliare fuori gli apparati italiani dalle comunicazioni militari, anche in ambito Nato, se alla prova dei fatti le barriere di protezione si dimostreranno insufficienti”.

Se dunque il nodo Huawei resta in piedi a dispetto dei sorrisi e delle pacche sulle spalle dei leader, lo stesso dicasi per la minaccia Usa di elevare dazi contro le nostre merci qualora entrasse in vigore anche da noi la web tax. Su questo punto, Conte ha cercato di glissare:  «Di dazi non ne abbiamo parlato, quindi non me ne aspetto». Peccato che il Segretario al Commercio Wilbur Ross sia stato stato molto chiaro al riguardo, e che la web tax sia già inclusa nella manovra che il nostro Parlamento approverà entro la fine dell’anno.

La situazione non è apparsa migliore nemmeno su un altro dossier caro all’Italia come la Libia. Conte ha sostenuto di averne “parlato a lungo” con Trump e di aver cercato il suo appoggio “per una soluzione politica. (…) Trump – ha aggiunto il capo del governo – è molto attento, sa che noi conosciamo molto bene il dossier e il territorio (e) questo ci consente di fare valutazioni più attente”.

Ma la verità è che la Libia non solo è fronte che interessa ben poco oltreoceano al di là di un limitato impegno in chiave di anti-terrorismo, ma che questa stessa attenzione degli Usa ai soli aspetti del contrasto jihadista predispongono Washington a guardare con benevolenza agli sforzi del generale Haftar e dei suoi alleati arabi e a snobbare proprio quel governo di Tripoli che, com’è noto, Roma ha sponsorizzato sin dall’inizio e a cui continua ad assicurare il proprio appoggio in tutte le sedi diplomatiche.

Insomma, al di là degli effetti speciali e della consueta bonomia tra due leader che sembrano piacersi, il bilaterale di ieri tra Conte e Trump lascia irrisolti tutti i problemi che in questo momento ci dividono dal nostro protettore d’oltreoceano. Resta la soddisfazione di essere uno dei pochi paesi cui sono risparmiati sgarbi e invettive. Una soddisfazione simbolica ma magra, considerato che sotto questa superficie scintillante si cela più di una mina capace di far deragliare il treno di un’alleanza mai così periclitante.

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