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Tutti gli errori di Putin, l’avventurista

L’avventurismo di Vladimir Putin ha pochi precedenti nella storia. L’analisi di Gianfranco Polillo

 

L’avventurismo di Vladimir Putin ha pochi precedenti nella storia. La sua smania di potenza lo ha portato, infatti, a compiere atti che sfuggono ad ogni regola di buon senso. L’invasione dell’Ucraina doveva essere una blitzkrieg, una guerra lampo: truppe meccanizzate, copertura aerea e fanteria, capaci di sfondare il fronte e raggiungere il cuore, Kiev, dove deporre Volodymyr Zelens’kyj, per sostituirlo con un pupazzo di regime. Un nuovo Janukovyč, l’ex presidente fuggito in Russia nel 2013, dopo essersi enormemente arricchito, la saga degli oligarchi, sulla pelle del popolo ucraino. Lo stesso deciso poi a vendicarsi, in appoggio allo stesso Putin nell’intervento militare, che lo porterà ad annettere la Crimea.

Invertendo in Ucraina, tuttavia, aveva fallito nella preparazione effettiva. Era rimasto ai tempi della guerra in Georgia (2008), che si era risolta in poco più di 10 giorni, ed aveva portato alla nascita di due Repubbliche “indipendenti”: Abcasia ed Ossezia, non riconosciute come tali dalla comunità internazionale. Oppure alla successiva annessione della Crimea (2014) alla quale si é fatto cenno in precedenza. Operazione ancora più facile. In base ad un vecchio trattato (1997), rinegoziato ed ampliato nel 2010, la Russia aveva conservato le vecchie basi sovietiche, le più importanti del Mediteranno. In virtù di quegli accordi poteva mantenere in zona fino a 25.000 uomini, 24 batterie di artiglieria (di calibro inferiore a 100 mm), 132 veicoli blindati, e 22 aerei. Diritti destinati a rimanere in vigore fino al 2042.

Dati questi presupposti non c’era stato nemmeno bisogno di muovere le truppe per puntellare gli annessionisti: quella parte della popolazione filo russa per cultura e tradizioni, per la verità in maggioranza, che sognava di tornare nelle braccia di Mosca. Era stato sufficiente armare le milizie e far partecipare soldati russi senza insegne – i fantomatici “omini verdi” – alle operazioni militari di controllo del territorio e quindi mobilitare l’apparato repressivo nel successivo referendum di annessione, da tutti ritenuto illegale. Ed il gioco era fatto. Semplice e facile, quasi come bere un bicchier d’acqua.

C’era stato poi l’effetto domino. Due altre zone di frontiera, Lugansk e Doneck, nella regione del Dombass, che sorge intorno al fiume Donec, affluente del Don, avevano deciso di imitare la Crimea. Più o meno identiche le ragioni: una forte presenza etnica di popolazione russofila, che vedeva con favore il ritorno verso la madre patria, dopo la dissoluzione dell’impero sovietico. Per la verità una sorta di nemesi storica. Nel lontano 1918 si era già costituita la Repubblica Sovietica del Donec-Krivoj Rog, come entità statuale indipendente. Ma il Comitato Centrale del Partito bolscevico, aveva respinto quell’iniziativa ed incorporato la neo-nata repubblica nell’Ucraina. Oggi, corsi e ricorsi della storia, il pendolo dovrebbe essere spinto, invece, in una direzione opposta.

Nelle più recenti vicenda del Donbass, tuttavia, le cose avevano preso fin dall’inizio una piega diversa. Alla decisione formale dei due territori, proclamatosi repubbliche indipendenti, aveva fatto seguito una lunga guerra, seppure a bassa intensità. Con migliaia di morti da entrambi le parti. Da un lato i filo russi, appoggiati ed armati da Mosca; dall’altro gli ucraini caratterizzati da una vocazione sempre più europeista, in difesa della propria identità nazionale. Truppe regolari, ma anche milizie, come il battaglione Azov, subito accusato di essere nazista, per la simbologia usata. Poi diventato Reggimento Azov ed infine assorbito nella Guardia nazionale ucraina. Il suo compito principale era soprattutto l’azione di contrasto, contro i separatisti filo russi e gli “omini verdi”. Le truppe di Mosca che partecipavano, senza insegne, ad un guerra durata ininterrottamente fino ai nostri giorni.

Putin doveva essere, come minimo, consapevole, della durezza di quegli scontri. L’accusa rivolta contro l’intelligence del suo Paese, per non averlo informato degli eventuali pericoli, è stata una scusa banale. Sarebbe stata credibile se quel terreno non fosse stato minato da lunghi anni di violenze commesse da entrambe le parti: episodi che solo la guerra civile è in grado di produrre. Ed invece niente. L’unica precauzione era stata quella di utilizzare truppe siberiane e cecene, oltre che i mercenari, per evitare possibili contatti di fratellanza con le popolazioni invase. Scelta che si era dimostrata essere controproducente per l’impreparazione soprattutto etica di quei militari. Neolanzichenecchi più che truppe combattenti in grado di garantire, con la loro professionalità, il rispetto delle normali regole d’ingaggio.

Il secondo errore di Putin è stato Bucha. L’aver consentito ai suoi comandanti di comportarsi come macellai, senza far nulla per prevenire i massacri indiscriminati della popolazione civile. Ed ancora più oscene, se così si può dire, le giustificazioni fornite. Il sostenere che quei massacri altro non erano che una grande messinscena. Una sorta di macabro reality show messo su per infangare il nome delle sue truppe di occupazione. Tentativo ardito. Da propinare ad un’opinione pubblica interna costretta a sorbirsi tutte le fake news di una comunicazione di regime, ma devastante sul piano internazionale.

La decisone dell’ONU di escludere la Russia dal Consiglio per la difesa dei diritti umani ha avuto, al tempo stesso, un alto valore simbolico, ed un significato che non può essere ignorato, vista la valanga di voti che ha accompagnato quella decisione. I SI sono stati 93, i NO soltanto 24, gli astenuti 58. Ma se quei voti si pesano oltre che contarli, lo scenario si arricchisce di ben altre sfumature. In termini di peso economico complessivo lo schieramento contro Putin è stato pari al doppio dei suoi sostenitori (49,8 del Pil mondiale 2020 contro il 25,1). Quasi identico per il numero di persone rappresentare: 1,8 miliardi il primo, 2 il secondo. Ma con una presenza della Cina debordante: da sola pari al 74 per cento del peso economico del suo intero schieramento. Alla lunga, quindi, il fu celeste impero dovrà decidere, se vorrà continuare a vendere all’estero i propri prodotti.

Ancora più interessante il teatro europeo. Il gruppo di Visegrad (Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Ungheria e Cecoslovacchia) se non è morto, almeno non gode più la salute di un tempo. Le sue pulsioni anti europee hanno dovuto cedere il posto alla realtà, ed ai pericoli rappresentati dalla presenza dell’ex Orso sovietico. La stessa Ungheria, nonostante l’entente cordiale tra il neo rieletto presidente Viktor Orbán e Vladimir Putin, ha dovuto votare a favore dell’esclusione. Segno evidente che la ragnatela dei rapporti, che l’intelligence russa aveva costruito con i vari movimenti populisti, in Europa, è entrata in una crisi che appare irreversibile.

Se ne vedranno gli effetti in Francia nelle prossime settimane, nel probabile duello elettorale tra la Le Pen e Macron. Quel che invece lascia meno dubbi è la situazione italiana, in cui i due principali movimenti populisti – la Lega ed i 5 stelle – ieri con il vento in poppa, oggi marcano evidenti difficoltà. Entrambi avevano scelto il cavallo sbagliato. La Lega puntando sulla Russia, proponendo di eliminare le sanzioni prese per l’intervento in Crimea, i 5 stelle sulla Cina: folgorati lungo la “via della seta”. Nell’ultimo Def, appena varato dal Governo, un lungo box illustra il peso dell’export italiano verso la Russia. Durante il primo governo giallo-verde, tra il 2018 ed il 2019, le esportazioni italiane verso quel Paese erano state pari all’1,6 per cento del totale. Erano quindi tali da giustificare il danno che quelle misure avrebbero comportato per le aziende italiane? O quella tesi non nascondeva ben altri interessi?

Nel caso dei rapporti con la Cina, invece, i 5 stelle, firmando l’apposito memorandum per la Belt and Road (29 marzo 2019), presente Giuseppe Conte e Xi Jinping, nel tripudio di bandiere dei due Paesi, pensavano di poter fare da mosche cocchiere. Insensibili alle dure critiche di Angela Merkel e di Emmanuel Macron, ritenevano che il corso della storia fosse segnato. E che, alla fine, la stessa Europa si sarebbe chinata alla realpolitik. Per la verità la Lega aveva avanzato forti perplessità, sia per bocca di Matteo Salvini, che di Giancarlo Giorgetti. Sennonché era stato proprio un uomo di quel partito – Michele Geraci, sottosegretario al Ministero dello sviluppo economico – a tessere la tela. Follie e contraddizioni degli absolute beginners della politica italiana. Inutile aggiungere che, anche questa volta, il pretesto era stato quella della difesa delle aziende italiane, spronate ad esportare verso quei lidi lontani.

Se si analizzano questi risultati, la sconfitta di Putin con il suo isolamento sul piano internazionale, appare evidente. Esclusa la Cina, costretta a fare di virtù necessità, ma che rischia sempre più di essere coinvolta in un gioco che non è in grado di controllare, le sponde offerte alla Russia sono state quelle di un coacervo di Paesi che hanno votato più contro gli USA, che non a favore di Putin. Paesi come l’Iran, il Vietnam, Cuba o la Korea del Nord. Ma la cosa più importante é stato il risveglio della bella addormentata: quell’Occidente che, in passato, aveva fatto finta di non vedere. E che oggi é costretto a riconsiderare gran parte delle sue posizioni. Prendere atto che un lungo ciclo della storia è terminato. E che le nuove fratture geopolitiche richiedono una diversa predisposizione in tema di armamenti, nel segno dell’antico detto “si vis pacem, para bellum” (essere armati per volere la pace). Idea che non sarà apprezzata da quel pugno di pacifisti “senza se e senza ma” da sempre iscritti d’ufficio nella lista degli utili idioti. Al servizio permanente effettivo del potere dispotico del dittatore di turno.

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