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Stato Islamico

Tutti gli errori dell’Europa contro l’islamismo

L'analisi di Giuseppe Gagliano

 

In una recente quanto esclusiva intervista su le Figaro Alain Chouet, ex direttore della DGSE e autore di un libro controcorrente, vuole mettere in evidenza le cause che stanno determinando in Francia-ma più generale in Europa-un atteggiamento di acquiescenza quando non di vera e propria incapacità a fare fronte alla minaccia islamista.

Fra i principali scopi del suo recente saggio vi è quello di individuare la genesi del terrorismo islamista nel salafismo e soprattutto nei mandanti e cioè in Riyadh e nelle nazioni petro-sunnite. A proposito della quale l’ex direttore del servizio esterno francese sottolinea come: “Per impedire all’acqua di un fiume di esondare, è più efficace bloccare la fonte che ostruire l’estuario”.

Se volgiamo il nostro sguardo alla Francia, che il direttore del servizio segreto francese conosce molto bene, non possiamo fare a meno di osservare l’impreparazione, la superficialità ma più spesso la connivenza e la complicità da parte dell’autorità francese nei confronti della radicalizzazione islamista.

In un articolo giubilante di Mediapart – sottolinea Chouet – nell’ottobre 2019, si scopriva che il presidente dell’Università Paris I-Sorbonne aveva deciso di sospendere sine die l’apertura di un ciclo di formazione per la “prevenzione della radicalizzazione” che avrebbe dovuto prendere il via a novembre presso la Sorbonne. Questo ciclo di breve durata si proponeva di far analizzare a un panel di responsabili amministrativi e associativi la nascita dell’islam politico e il ruolo del jihadismo nella dottrina salafita.

Il presidente di Paris-I concludeva le motivazioni della sua decisione con la seguente frase: “La questione della radicalizzazione è uno dei temi più importanti della nostra società ed è normale che un centro universitario se ne occupi, ma penso che sia pericoloso e riduttivo occuparsi solamente dell’islam”. Con un approccio di questo genere, di questo natura all’insegna del politicamente corretto non sarà mai possibile contrastare la pervasiva presenza del radicalismo islamico in Europa.

Se poi rivolgiamo la nostra attenzione alle operazioni che ha condotto recentemente la Francia in Sahel la situazione è drammatica. Infatti, dopo circa otto anni, l’esercito francese si ritrova sotto assedio, come l’esercito americano in Afghanistan, avendo messo i piedi in un pantano inestricabile di antagonismi secolari tra Stati vicini le cui frontiere sono oggetto di dispute, al cuore di traffici transfrontalieri strettamente legati al mercato della droga. E a questo proposito le osservazioni del direttore dell’intelligence francese sono quanto mai interessanti.

I produttori sudamericani hanno riorientato una buona parte delle loro spedizioni verso i porti africani del Golfo di Guinea, dove i controlli sono superficiali o inesistenti. Da lì, la droga è trasportata lungo le rotte attraverso il Sahara sotto la scorta armata dei trafficanti “jihadisti” per arrivare in Marocco o Algeria, dove essa prende le forme classiche di esportazione come hashish o prodotti derivati. Gli esperti stimano che più di un terzo della cocaina proveniente dall’America del Sud transiti oggi per i Paesi del Sahel e del Sahara, convogliata da banditi armati che indossano gli orpelli dell’islam. Sul piano operativo della lotta contro il terrorismo, è grave non prendere in considerazione questa realtà.

Ma esistono delle cause imputabili all’Europa ,ed in particolare alla Francia ,che hanno consentito a queste frange estremiste di radicalizzarsi con estrema facilità e rapidità nell’Europa? La risposta è affermativa, sottolinea il direttore dell’intelligence francese. E il suo pensiero non può che andare alle primavere arabe che hanno favorito la diffusione del terrorismo islamista. A tale proposito cita la testimonianza di un ministro di indubbia notorietà e credibilità a livello internazionale.

Tra i primi sostenitori occidentali del sostegno alle rivoluzioni primaverili, Alain Juppé, allora Ministro degli Affari Esteri, ha dovuto riconoscere in un’intervista concessa il 25 gennaio 2021 a Le Parisien: “A posteriori, quando rileggo il mio discorso del 2011 e guardo alla situazione attuale, mi tocca constatare un fiasco totale. Nessuno degli obiettivi che ci eravamo prefissati, tra i quali favorire le libertà e creare un partenariato economico e sociale più efficace, è stato raggiunto. Abbiamo cercato di accompagnare la liberalizzazione di questi regimi avendo invece come risultato l’anarchia, il caos, il ritorno ai regimi autoritari”.

Un altro esempio della dittatura del politicamente corretto che impedisce all’opinione pubblica e a gran parte della stampa di percepire con lucidità il pericolo della radicalizzazione della lista ci viene illustrato dal direttore in relazione al primo attentato contro Charlie Hebdo nel gennaio 2015, in occasione del quale fu intervistato dal canale televisivo Arte e dall’AFP sulla direzione presa dai fratelli Kouachi per la fuga ed ebbe modo di sottolineare il ruolo di Molenbeek come centro di convergenza e di ripiego dei salafiti violenti in Europa, che poteva spiegare la loro fuga verso l’autostrada A1, e sottolineò altresì la permeabilità e la vulnerabilità dell’aeroporto di Zaventem. Queste affermazioni, riprese da diversi media collegati all’AFP, suscitarono la reazione durissima del Primo Ministro belga dell’epoca. E

bbene, gli attentati del novembre 2015, a cominciare da quello del Bataclan, la fuga verso Molenbeek di uno degli attentatori che era provenuto proprio da lì assieme ai corresponsabili uccisi durante le operazioni e infine l’attentato all’aeroporto di Zaventem nel marzo 2016 hanno qualche mese più tardi confermato le valutazioni del direttore , che non erano dunque né false , né ingiuriose . Di fronte a questi giudizi estremamente pericolosi perché favoriscono la penetrazione del radicalismo islamico è stato scritto un pamphlet il 22 marzo 2016 sotto il significativo titolo di “J’accuse!” da Bernard Snoeck, ex specialista del controspionaggio e controterrorismo presso il SGSR (Servizio generale dell’intelligence della sicurezza) belga nel quale l’analista accuso i responsabili politici di non aver mai voluto comprendere la crescita dell’islam radicale e di averlo deliberatamente ignorato per cause di elettoralismo e ‘politicamente corretto’. Non solo : ma lo studioso accusava che in diversi comuni belgi si era sviluppato un radicalismo jihadista e non si era intervenuto perché era un bacino elettorale importante . Inoltre lo studioso francese accusava esplicitamente l’ex ministro della difesa di non aver autorizzato un’inchiesta approfondita sull’islam radicale in seno alle forze armate, al fine di ‘non stigmatizzare la popolazione musulmana che serve nell’esercito .

Un altro errore che si commette non tanto a livello politico ma a livello strategico è il sottovalutare o addirittura il negare il ruolo del lupo solitario negli attentati terroristici di matrice islamica. Infatti, secondo il direttore dell’intelligence francese, il negazionismo del concetto del lupo solitario non si riduce a una semplice disputa semantica tra esperti. Ha un impatto profondo sul trattamento securitario, poliziesco e giudiziario di questi atti terroristici, ma anche e soprattutto sulla percezione globale del fenomeno e sulla dottrina da mettere in opera per sradicarlo. Perché i mandanti e gli istigatori del terrorismo esistono. Inutile andare a cercarli in un nascondiglio sperduto in Siria, Afghanistan o Yemen. Sono legioni. Sono tutti quelli, wahabiti, Tablighis e soprattutto Fratelli Musulmani, che si appellano senza sosta da trenta anni alla rivolta e alla violenza contro l’Occidente, i regimi arabi “empi” e i “miscredenti”, anche musulmani. Sono tutti quelli che prescrivono la dissidenza e la separazione rispetto alle società di residenza o di accoglienza, tutti quelli che ordinano di non rispettare le leggi dello Stato che, secondo loro, non valgono niente di fronte alla sharia. Sotto le due sciabole incrociate nell’emblema dei Fratelli Musulmani figura un solo motto in arabo che è un perentorio richiamo e che si può tradurre con “Siate pronti!”. Trenta anni di lavaggio del cervello intensivo hanno reso ancora più efficace dall’assistenza finanziaria delle petro-monarchie e dall’universalismo di internet e dei social network ha largamente contribuito al fatto che alcuni individui “si sentano pronti”. Nella ricerca ostentata dei mandanti o delle reti individuali e identificabili, si commette l’errore di nominare chiaramente il nemico, e con lui i veri istigatori, ideologi, agenti d’influenza, sponsor e finanziatori della violenza salafita, impedendo a noi stessi di lottare contro le loro attività e le loro manovre.

Ora, una delle prime cose da fare, sottolinea l’ex direttore dell’intelligence francese è quella di indicare chiaramente il nemico, un nemico certamente inquietante perché non è l’Islam ma è il salafismo. Il quale va stigmatizzato e nei cui confronti va soprattutto indicato il flusso di denaro che gli permette di diffondere il proprio messaggio separatista. Il direttore della intelligence sottolinea con stupore e sconcerto che è stata un’impresa incredibili che i salafiti siano riusciti a passare per vittime (del neocolonialismo, dell’islamofobia…), proprio loro che sono responsabili di atroci crimini. Ma quali sono i legami internazionali si domanda il direttore dell’intervento francese? La risposta è inequivocabile: il legame tra jihadismo e wahabismo è comprovato da più di due secoli. La tribù dei Saud strumentalizza regolarmente il jihadismo al servizio dei suoi interessi, ma fallisce sistematicamente nel controllarne gli sviluppi e gli effetti perversi, sia a casa sua che nel resto del mondo. Essi diffondono il caos, e questo caos è riassorbito in parte dagli interventi militari delle potenze straniere, generalmente non arabe e non musulmane, che in seguito devono supportare il peso militare e finanziario di questi interventi, le conseguenti responsabilità e conseguenze e finanche il sospetto, mai sopito, di aver cominciato una nuova crociata contro l’islam. Quali sono le nazioni che fomentano questo genere di destabilizzazione a livello globale si domanda il direttore dell’ intelligence francese?

Certamente il Qatar, il Pakistan, la Turchia, ma Riyadh è al centro di questa rete. Essa non sostiene il jihadismo per affinità ideologica o per volontà missionaria. Lo fa per pragmatismo, per mettere i Saud al riparo dalle critiche dell’Occidente, al riparo dalla concorrenza imperiale con l’Iran, al riparo della contestazione democratica o sociale. Incoraggia ovunque e sempre chiunque sia suscettibile di trasmettere il dogma teocratico, settario e reazionario sul quale ha costruito la sua contestabile legittimità dopo la conquista militare dei luoghi santi dell’islam nel 1926 a spese dei guardiani tutelari Hashemiti, dei quali il re di Giordania è diretto discendente. Ma allora perché la superpotenza americana-che è pienamente al corrente di questi legami-non denuncia tutto ciò? Per il petrolio?

Certo. Risponde con molta lucidità risponde l’ex direttore della intelligence francese .Infatti nessuno sacrificherebbe mai dei vantaggi economici evidenti per delle politiche incerte e di lungo periodo, come lo sradicamento della presenza dei salafiti, la lotta contro il loro finanziamento e l’opposizione a ogni cooperazione con i sauditi finché conducono una politica contraria ai nostri interessi.

Vale per la Francia, ma soprattutto per gli Stati Uniti, che dal 1945 traggono indubbio vantaggio dal pagamento in dollari del petrolio, che gli consente di accumulare deficit abissali.

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