skip to Main Content

Bruxelles

Tutte le prime spine raccolte da Conte fra Roma e Bruxelles

I Graffi di Damato

 

Nel valzer con Ursula von der Leyen a Bruxelles immaginato dal vignettista Emilio Giannelli sulla prima pagina del Corriere della Sera c’è forse un Giuseppe Conte troppo su di tono, o intraprendente, perché le notizie giunte dalla capitale belga, e dell’Unione Europea, non sono proprio incoraggianti per chi si aspettava e si aspetta un grande cambiamento di passo, ora che nel governo italiano accanto ai grillini non ci sono più i leghisti del sovranista Matteo Salvini ma il Pd e la sinistra radicale dei “liberi e uguali” Massimo D’Alema, Pier Luigi Bersani, Pietro Grasso e via rosseggiando.

Il corrispondente del giornale della Confindustria, il Sole 24 Ore, dagli uffici comunitari ha riferito, per esempio, di un presidente del Consiglio costretto ad “accantonare” nella sua missione bruxellese la riforma del cosiddetto patto di stabilità chiesta, ipotizzata e quant’altro nelle dichiarazioni programmatiche alle Camere. E anche il nuovo commissario agli affari economici della Commissione Europea presieduta dall’ex ministra tedesca della Difesa, l’italiano Paolo Gentiloni, potrà praticare e chiedere per Roma una “flessibilità” molto relativa con tutti gli occhi vigilanti che ha addosso, a cominciare da quelli del vice presidente “esecutivo”, il rigorista lettone Valdis Dombrovskis, messogli sopra deliberatamente, per quanto Conte abbia scorto smagliature fra le sue deleghe.

Qualche spiraglio, pur se smentito nel suo titolo di prima pagina da Repubblica, che parla di un’Europa sorda anche su questo terreno, è stato invece avvertito da Conte sul fronte dell’immigrazione negli incontri con gli uscenti ed entranti vertici comunitari, visto che si ì avventurato a parlare poi con i giornalisti di multe ed altre penalità da poter applicare ai paesi dell’Unione che dovessero sottrarsi ad una equa distribuzione di quanti continueranno a sbarcare sulle coste italiane.

Se a Bruxelles ha lasciato spine, nel suo rientro a Roma Conte non ne ha trovate di meno fra un Luigi Di Maio che continua ad usare gli uffici della Farnesina per ostentare il suo ruolo di “capo” del Movimento delle 5 stelle presiedendo una riunione di esperti economici per il varo del bilancio, un po’ come Salvini faceva al Viminale anche con i sindacati; un plenipotenziario dello stesso Di Maio e il capo della delegazione piddina al governo, Dario Franceschini, sommersi dalle troppe candidature grilline ai posti di sottosegretario e vice ministro, e un segretario del Pd in persona, Nicola Zingaretti, che ammette anche in pubblico il timore di una scissione, o qualcosa di simile, del suo partito per iniziativa del mobilissimo Matteo Renzi. Di cui pure lo stesso Zingaretti ha assecondato le improvvise aperture ai grillini durante la crisi agostana, rinunciando alla linea di un preventivo passaggio elettorale che aveva indotto Salvini a scommettere sullo scioglimento anticipato delle Camere interrompendo l’esperienza gialloverde.

Dopo le ammissioni del capogruppo renziano del Pd al Senato, Andrea Marcucci, spintosi a dichiarare al Corriere della Sera che in caso di scissione, o – ripeto – qualcosa del genere, del suo partito “l’importante è che Renzi continui ad appoggiare il governo” nato proprio grazie a lui, si sono avute parole non proprio casuali della ministra che lo stesso Renzi ha voluto all’Agricoltura: Teresa Bellanova. Che sempre al Corriere della Sera, parlando appunto della possibilità di clamorose sorprese nel suo partito, ha detto: “Quando ci saranno fatti nuovi, io ancora una volta dirò con molta chiarezza da che parte sto”, cioè con Renzi.

Da tripartito, quindi, per tornare ai linguaggi e alle formule della cosiddetta Prima Repubblica, il secondo governo Conte appena nato e fiduciato dalle Camere rischia di diventare quadripartito, con tutti gli inconvenienti relativi, a meno che non torni tripartito col rientro dei “liberi e uguali” di D’Alema e compagni nel Pd, più facile una volta che Renzi dovesse uscirne, o metterne un piede fuori costituendo un gruppo autonomo a Montecitorio e restando invece in quello del Senato, dove il regolamento gli imporrebbe l’adesione al gruppo misto. Ma un Pd del genere non sarebbe certamente uguale a quello con cui Conte ha negoziato il suo secondo esecutivo.

Back To Top