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Tutte le emergenze che rinsaldano Conte

Come Conte slalomeggia tra le emergenze. I Graffi di Damato

Le matrioske hanno un volto generalmente femminile. Qualche vignettista dovrebbe decidersi a disegnarne col volto maschile: quello, per esempio, di Giuseppe Conte. Che è politicamente nato sull’onda di un’emergenza ed è via via cresciuto di o con altre emergenze di varia natura, superandole sinora tutte.  Ma forse si è appena esposto al rischio di rimanerne vittima, come sperano critici ed avversari più o meno emersi o sommersi, secondo le circostanze e i gusti.

L’emergenza che lo portò nella primavera del 2018 a Palazzo Chigi — su designazione dei grillini alla fine accettata dai leghisti e dallo stesso capo dello Stato, che non nascose una certa sorpresa, avendo preferito che gli fosse proposto per Palazzo Chigi  il nome di un politico di esperienza, possibilmente eletto — fu quella politica e istituzionale di un turno elettorale che rischiava di essere ripetuto a tamburo battente, o quasi.

Di elezioni anticipate, per carità, ve ne erano state fra le cosiddette prima e seconda Repubblica: anche troppe, sbottò una volta al Quirinale Giorgio Napolitano. Ma non ve n’erano mai state di così ravvicinate come rischiavano di essere quelle dell’estate o dell’autunno del 2018, dopo il rinnovo delle Camere avvenuto col voto del 4 marzo.

Il governo gialloverde si trovò già verso la fine di quell’anno con l’emergenza di una legge finanziaria contestata dalla Commissione Europea per via di un 2,4 per cento di rapporto fra deficit di bilancio e Pil, cioè prodotto interno lordo, che Conte riuscì all’ultimo momento a trasformare in un magico e digeribile 2,04 per cento. E ciò tra il malumore comune di leghisti e soprattutto grillini, che avevano già festeggiato dal balcone di Palazzo Chigi con la cifra originaria del 2,4 “la sconfitta” della povertà in Italia.

Con le elezioni europee di fine maggio 2019, a dispetto dell’anno “bellissimo” autoassegnatosi da Conte, arrivò la crisi emergenziale di identità e d’altro tipo ancora dei grillini, persisi per strada quasi metà dell’elettorato dell’anno prima e sorpassati dagli alleati leghisti. Il cui “capitano” Matteo Salvini, dopo esitazioni che gli risultarono politicamente fatali, cercò in pieno agosto di tentare il colpaccio delle elezioni anticipate, avvertite però come un’emergenza da grillini, Pd e sinistra di liberi e uguali. Che offrirono all’esitante presidente della Repubblica una soluzione alternativa allo scioglimento delle Camere. Nacque così il governo Conte 2, non bis, quale sarebbe stato una riedizione del governo gialloverde.

Ancora fresco di formazione e giuramento, il nuovo esecutivo si trovò di fronte ad una nuova emergenza politica: la scissione del Pd ad opera di Matteo Renzi, che cominciò subito a scuotere la maggioranza, pur nata dalla sua improvvisa rinuncia a mangiare pop-corn in attesa di nuove elezioni. Il toscano fece drizzare i capelli al povero segretario del Pd Nicola Zingaretti, che pure non ne ha, e ai grillini capeggiati ancora da Luigi Di Maio, nel frattempo trasferitosi alla Farnesina dai due ministeri — dello Sviluppo Economico e del Lavoro — occupati nel precedente governo. Ma pur con la feluca metaforica di ministro degli Esteri “Giggino” avrebbe poi dovuto fare un passo indietro nel suo movimento e lasciarlo alla reggenza di Vito Crimi.

Quest’ultimo, sorpreso non meno di Conte dalla sopraggiunta emergenza sanitaria, economica e sociale del coronavirus, e delle relative complicazioni nei rapporti fra Stato e regioni già pasticciati con la sventurata riforma del titolo quinto della Costituzione, improvvisata dalla sinistra nel 2001 nel tentativo peraltro fallito di guadagnarsi il favore dei leghisti e sottrarli alla tentazione di tornare all’alleanza con Silvio Berlusconi; quest’ultimo, dicevo a proposito di Crimi, si è incaponito di fronte ad un problema forse più grande di lui com’è quello dei rapporti con l’Unione Europea. In particolare, egli ha diffidato il Pd, in una intervista rilasciata all’ospitalissmo e compiaciuto Fatto Quotidiano, dal premere sul presidente del Consiglio per aderire alla nuova edizione in corso d’opera del cosiddetto fondo europeo salva-Stati, noto anche come Mes, acronimo di Meccanismo europeo di stabilità, e usarne il finanziamento per le spese sanitarie e affini dell’emergenza virale.

Il Pd, premuto esternamente a sua volta da Romano Prodi ma incoraggiato anche da Silvio Berlusconi, questa volta in dissenso ancora più aperto del solito dalle altre componenti del centrodestra, non si è fermato per niente all’altolà di Crimi. E Conte, avvertito il rischio di rimanere schiacciato nella tenaglia giallorossa, peraltro in uno scenario in cui da settimane si parla e si pensa ad un “governissimo” di unità nazionale presieduto dal prestigiosissimo ex presidente della Banca Centrale Europea Mario Draghi, ha cercato quanto meno di temporeggiare. Egli, in particolare, ha liquidato come “premature” le polemiche ed ha smesso di proclamare, con tono vagamente sovranista come quello che pure contesta tutti i giorni a Salvini e ai fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, che non userà il fondo salva-Stati per paura di trovarsi di fronte a condizioni tanto imprevedibili quanto pesanti.

Come andrà a finire, a questo punto, la gestione dell’ennesima emergenza apertasi nella maggioranza alla vigilia del vertice europeo della prossima settimana, lo vedremo dai fatti. Certo è che la matrioska delle emergenze è diventata a questo punto enorme. E non mi stupisce che un parlamentare sgamato come Pier Ferdinando Casini, chiamato “Pierfurby” dagli amici, compreso me, si sia lasciato scappare un’intervista ai giornali del gruppo Monti Riffeser — Il Giorno, il Resto del Carlino e la Nazione, in ordine geografico decrescente di pubblicazione — nel cui titolo gli si fa “archiviare” il governo Conte nella prospettiva di un governo Draghi. “Servono — ha detto testualmente il senatore ed ex presidente della Camera — persone che hanno credibilità e capacità. È  finito il tempo del dilettantismo”.

 

 

Articolo pubblicato sul Dubbio

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