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Tunisia, come si muove Saied fra Fmi, Ue e Brics

Che cosa succede davvero in Tunisia? Conversazione di Start Magazine con Michela Mercuri, docente di Cultura, Storia e Società dei Paesi musulmani all’Università di Padova.

 

Che cosa succede in Tunisia?

La Tunisia si avvita in una spirale sempre più pericolosa di autoritarismo politico e di crisi economica e finanziaria?

Ecco i temi al centro dell conversazione di Start Magazine con Michela Mercuri, docente di Cultura, Storia e Società dei Paesi musulmani all’Università di Padova.

Chi è Kais Saied? E perché viene definito un presidente populista?

Saied si è presentato alle elezioni come il candidato irreprensibile, al quale nulla poteva essere rimproverato del suo passato e anche del suo presente. Soprattutto era intenzionato a scatenare una lotta senza pari contro la corruzione. E quindi da questo punto di vista può essere senz’altro definito un populista. Quello che poi è accaduto dopo, tuttavia, ci fa cambiare questa immagine di Saied.

Comunque Saied ha stravinto le elezioni.

Sì, ha vinto il ballottaggio con il 72% circa dei voti, e quindi anche di quelli femminili. Durante la campagna elettorale ripeteva spesso una frase, “il popolo vuole e io so cosa vuole”, e questo aveva fatto sperare la popolazione in una ripresa del Paese, sia economica sia anche in termini di sicurezza, cosa che poi invece non è avvenuta.

Nel frattempo Saied si è preso tutto il potere.

Sì, Saied si è avocato via via tutti i poteri sciogliendo anche il Parlamento e facendo arrestare molti oppositori. Questo atteggiamento però potrebbe creare molte frizioni all’interno del Paese, tra le frange ad esempio dei Fratelli Musulmani e il governo stesso, e innescare delle rivolte che potrebbero essere scatenate dai gruppi più estremisti, come per esempio quello dei salafiti. Quindi da questo punto vista possiamo dire che Saied non si è dimostrato affatto in grado di tenere fede a quanto aveva detto in campagna elettorale e il suo mandato è sempre più fragile anche da un punto di vista economico.

È corretto sottolineare, come fa più di qualcuno, che la Tunisia non è più una democrazia?

Fin dalle elezioni del 2011 abbiamo sempre detto che la Tunisia era l’eccezione felice delle primavere arabe, perché c’erano state elezioni regolari e un’alternanza di partiti laici e islamisti al governo, e questo ci aveva fatto guardare alla Tunisia con delle lenti forse un po’ annacquate, nel senso che non bastano questi elementi per definire un Paese completamente democratico.

La Tunisia ha infatti tanti altri problemi.

Sì, ad esempio ha esportato nei teatri levantini più foreign fighters in rapporto alla popolazione di qualsiasi altro Paese islamico. È un Paese che soffre di una disoccupazione giovanile endemica e di una crisi finanziaria di sistema, e questo ancor prima che Saied arrivasse al potere, al punto che questi fattori hanno contribuito all’ascesa di Saied che in campagna elettorale aveva fatto tutta una serie di promesse per risolvere queste crisi.

E considerando gli sviluppi più recenti?

È chiaro che in questo momento, visto anche l’arresto di molti esponenti dell’opposizione, il concetto di democrazia vacilla ancora di più. Nonostante questo la comunità internazionale si trova davanti a un dilemma, se considerare in ogni caso Saied come un interlocutore stabile, a differenza di quanto avviene in Libia dove interlocutori non ci sono, oppure non sostenere Saied e lasciare la Tunisia al suo destino.

Quanto è concreto il rischio bancarotta per un paese che sta negoziando faticosamente un prestito dal FMI?

Il rischio è molto concreto, basti pensare all’ultimo declassamento del rating della Tunisia compiuto dall’agenzia Moody’s. Proprio per questo il Paese è giudicato ora un Paese ad altissimo rischio, a maggior ragione in questo momento in cui anche l’Ue, che aveva promesso di supportare Tunisi sia con dei fondi propri sia perorando la causa della Tunisia presso l’Fmi, proprio nei giorni scorsi ha deciso di condizionare anch’essa i suoi finanziamenti al sì da parte del Fmi alla concessione del prestito chiesto dal governo.

Sembra che la Tunisia si avvii a entrare nei Brics. È così?

Saied è un grandissimo giocatore di scacchi. Lui vorrebbe i soldi dell’Fmi e dell’Ue senza introdurre le riforme richieste, tra le quali spicca il taglio ai sussidi che andrebbe ad erodere ulteriormente il suo consenso interno. E quindi Saied sta ora giocando la sua partita dicendo, in parole povere, che se voi non mi date il sostegno richiesto, io vado da quello che voi considerate il vostro avversario geopolitico, che sono i Brics e in particolare la Cina.

Sui Brics Saied fa sul serio secondo lei?

In realtà Saied potrebbe benissimo bluffare, ma questo ci fa capire come sia molto importante mantenere un dialogo aperto con lui, perché è l’unico interlocutore che abbiamo in questo momento in Tunisia. Ma c’è un’altra questione fondamentale su cui occorre riflettere ed è quella energetica. Ricordiamoci infatti che attraverso la Tunisia passa il gasdotto Transmed o Enrico Mattei, gasdotto che parte dall’Algeria e porta il gas in Italia. Quindi noi italiani dovremmo farci carico della questione tunisina visto che l’Ue sembra invece volersi discostare dalla linea di cooperazione che a parole aveva garantito.

Chi è Rachid Ghannouci e perché Saied lo ha fatto imprigionare?

Ghannouci è il leader di Ennhada, un partito a forte connotazione islamista che fa riferimento ai Fratelli Musulmani, che ha vinto le prime elezioni post-rivolte arabe. Ghannouci non si è comunque dimostrato mai capace di risollevare le sorti del Paese. Nella sua strategia di espulsione di ogni possibile avversario politico, Saied ha fatto arrestare molti esponenti di quel partito e anche personalità non formalmente affiliate al partito, adducendo il rischio del ritorno di un pericolo islamista, ossia del ritorno del Paese a quello stadio in cui ci sono stati vari attentati nel Paese e soprattutto i vari leader alternatisi al potere non sono stati in grado di risolvere i problemi del Paese.

Esiste un rischio islamismo in Tunisia?

Se per rischio islamista intendiamo il possibile ritorno di fiamma di gruppi jihadisti o dell’estremismo più radicale è chiaro che il problema si pone, specie se il Paese dovesse crollare all’improvviso. Infatti questi gruppi, quando trovano un Paese in preda al caos politico, economico e sociale, si incuneano e sfruttano il vuoto di potere anche per incrementare i loro traffici, anche ad esempio in campo migratorio.

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