Caro direttore,
in una delle sue visionarie apparizioni televisive di qualche tempo fa il prof. Alessandro Orsini spiegava a noi ignoranti che, se Israele avesse osato attraversare il cielo iraniano con i suoi caccia, sarebbe stato distrutto. Ovviamente l’aviazione dell’Idf ha eseguito l’annunciata rappresaglia senza particolari difficoltà, e a essere distrutti sono stati invece numerosi depositi di armi dei “guardiani della rivoluzione”.
Ma lasciamo stare le predizioni dei veggenti e parliamo di cose più serie. Molti analisti si stanno interrogando se Ali Khamenei aprirà un nuovo fronte di guerra con Israele. A chi scrive pare improbabile. È una scelta troppo rischiosa per l’Ayatollah, che peraltro non gode di molte simpatie nel mondo arabo. Forse è ben vista da Putin, ma sarebbe invisa alla Cina. Più plausibile è uno scenario in cui si alterneranno attacchi dimostrativi a suon di droni e azioni clamorose di terrorismo.
È allora opportuno chiarire un punto. Il termine terrorismo deriva dal latino “terrere” (atterrire). E non riguarda i fini, ma i mezzi. L’attacco a una unità militare è guerriglia, una bomba in un ristorante è terrorismo. È evidente che sono azioni diverse, anche se compiute dagli stessi soggetti. Diverse politicamente e moralmente.
Ancora più diverso è il caso del terrorismo islamico. Hamas, Hezbollah, Houthi e le formazioni jihadiste disseminate in Africa e Asia, sono tutte avamposti di un terrorismo “al servizio di Dio”. Il loro nemico non è un particolare regime, ma la civiltà occidentale in quanto tale. Se nel mirino del terrorismo c’è l’intera civiltà occidentale, cristiana e laica, anche se si esita a definirla “guerra di religione”, siamo comunque di fronte a un conflitto condotto sì da una parte minoritaria – estremista e radicale – del mondo musulmano, ma la cui maggioranza resta spettatrice passiva, mentre solo una minoranza esigua lo depreca formalmente.
Quando sente la “chiamata” – interiore o comandata da un centro operativo – e si fa esplodere, il terrorista islamico vive il suo gesto suicida come una specie di martirio che sarà premiato lautamente nella vita ultraterrena. La fede religiosa dà a questo martire-assassino una determinazione che nessuna ideologia può dare. Si tratta di una disponibilità assoluta al sacrificio di se stesso che non può essere spiegata ricorrendo a fattori sociali (povertà) o psicologici (disagio mentale). Non capiremmo un fenomeno che ha ragioni profonde di ordine spirituale e storico: il risentimento di una civiltà ricca di antichi splendori verso il Grande Satana americano e la sua avanguardia in Medio Oriente, ossia Israele, superbi nel loro trionfo tecnologico, culturale e civile.
A suo modo, il terrorismo che si richiama ad Allah ha una logica rigorosa, fondata su una fede inappellabile e sulla prospettiva di un islam universale: se “Dio è morto” in occidente, altrove è ben vivo. Sta qui l’aspetto più inquietante dei massacri dell’ultimo ventennio, quello che va dall’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001) alla mattanza nei villaggi israeliani del 7 ottobre dell’anno scorso. Essi costituiscono una sfida a un concetto di umanità, il nostro, che ha certo i suoi lati oscuri ed è attraversato da interne tendenze disgregatrici, ma che legittimamente resiste ai vecchi e nuovi totalitarismi.