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Medio Oriente

Il terrorismo islamico e il conflitto in Medio Oriente

Hamas, Hezbollah, Houthi e le formazioni jihadiste disseminate in Africa e Asia, sono tutte avamposti di un terrorismo “al servizio di Dio”. La lettera di Michele Magno

Caro direttore,

in una delle sue visionarie apparizioni televisive di qualche tempo fa il prof. Alessandro Orsini spiegava a noi ignoranti che, se Israele avesse osato attraversare il cielo iraniano con i suoi caccia, sarebbe stato distrutto. Ovviamente l’aviazione dell’Idf ha eseguito l’annunciata rappresaglia senza particolari difficoltà, e a essere distrutti sono stati invece numerosi depositi di armi dei “guardiani della rivoluzione”.

Ma lasciamo stare le predizioni dei veggenti e parliamo di cose più serie. Molti analisti si stanno interrogando se Ali Khamenei aprirà un nuovo fronte di guerra con Israele. A chi scrive pare improbabile. È una scelta troppo rischiosa per l’Ayatollah, che peraltro non gode di molte simpatie nel mondo arabo. Forse è ben vista da Putin, ma sarebbe invisa alla Cina. Più plausibile è uno scenario in cui si alterneranno attacchi dimostrativi a suon di droni e azioni clamorose di terrorismo.

È allora opportuno chiarire un punto. Il termine terrorismo deriva dal latino “terrere” (atterrire). E non riguarda i fini, ma i mezzi. L’attacco a una unità militare è guerriglia, una bomba in un ristorante è terrorismo. È evidente che sono azioni diverse, anche se compiute dagli stessi soggetti. Diverse politicamente e moralmente.

Ancora più diverso è il caso del terrorismo islamico. Hamas, Hezbollah, Houthi e le formazioni jihadiste disseminate in Africa e Asia, sono tutte avamposti di un terrorismo “al servizio di Dio”. Il loro nemico non è un particolare regime, ma la civiltà occidentale in quanto tale. Se nel mirino del terrorismo c’è l’intera civiltà occidentale, cristiana e laica, anche se si esita a definirla “guerra di religione”, siamo comunque di fronte a un conflitto condotto sì da una parte minoritaria – estremista e radicale – del mondo musulmano, ma la cui maggioranza resta spettatrice passiva, mentre solo una minoranza esigua lo depreca formalmente.

Quando sente la “chiamata” – interiore o comandata da un centro operativo – e si fa esplodere, il terrorista islamico vive il suo gesto suicida come una specie di martirio che sarà premiato lautamente nella vita ultraterrena. La fede religiosa dà a questo martire-assassino una determinazione che nessuna ideologia può dare. Si tratta di una disponibilità assoluta al sacrificio di se stesso che non può essere spiegata ricorrendo a fattori sociali (povertà) o psicologici (disagio mentale). Non capiremmo un fenomeno che ha ragioni profonde di ordine spirituale e storico: il risentimento di una civiltà ricca di antichi splendori verso il Grande Satana americano e la sua avanguardia in Medio Oriente, ossia Israele, superbi nel loro trionfo tecnologico, culturale e civile.

A suo modo, il terrorismo che si richiama ad Allah ha una logica rigorosa, fondata su una fede inappellabile e sulla prospettiva di un islam universale: se “Dio è morto” in occidente, altrove è ben vivo. Sta qui l’aspetto più inquietante dei massacri dell’ultimo ventennio, quello che va dall’attacco alle Torri Gemelle (11 settembre 2001) alla mattanza nei villaggi israeliani del 7 ottobre dell’anno scorso. Essi costituiscono una sfida a un concetto di umanità, il nostro, che ha certo i suoi lati oscuri ed è attraversato da interne tendenze disgregatrici, ma che legittimamente resiste ai vecchi e nuovi totalitarismi.

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