D’accordo. Jens Stoltenberg è stato imprudente e forse anche un poco scorretto visto che certe affermazioni (“è ora di togliere il divieto all’Ucraina di usare le armi all’interno dei confini russi”) non si fanno a cuor leggero senza una preventiva consultazione. Soprattutto a pochi giorni dal voto per il Parlamento europeo, quando i partiti temono persino la loro ombra, soprattutto in Italia (basti ricordare il trattamento riservato dalla maggioranza a Maurizio Leo per il decreto sul redditometro).
Il segretario generale della Nato però non aveva tutti i torti: in Ucraina non c’è una pausa nel conflitto per consentire lo svolgimento delle elezioni; l’esercito ucraino è in evidente difficoltà se non arrivano al più presto gli armamenti promessi. Poi è inutile ribadire ad ogni occasione che Putin non può vincere e costringere da più di 800 giorni (trascorsi sotto le bombe, i missili e le cannonate che arrivano dall’inviolabile territorio russo) il popolo ucraino ad una guerra solo “difensiva”, come se per difendersi non fosse necessario colpire il nemico nei punti da cui attacca.
In Italia, talune reazioni critiche nei confronti delle dichiarazioni di Stoltenberg sono state vomitevoli. Nella gara dei filoputiniani Matteo Salvini è arrivato primo, con affermazioni che sembravano concordate con Medvedev. Ma nessuno è stato da meno. Persino il cauto e diplomatico Antonio Tajani si è lanciato in un jamais che non lasciava equivoci di sorta: la Russia non si tocca, altrimenti ci riprendiamo i fucili modello ’91 forniti all’esercito ucraino.
Come tutte le “fughe in avanti”, anche quella del segretario della Nato è finita per portare acqua al mulino di Putin. Lo Zar del Cremlino si sarà messo a cronometrare i minuti con i quali venivano una dopo l’altra le smentite da parte dei governi occidentali (non di tutti né tutti allo stesso modo). Ma la sortita di Stoltenberg è stata utile sicuramente per noi italiani perché – basta un minimo di onestà intellettuale – ci ha consentito di comprendere quanto sia inutile e vaga la campagna elettorale per il voto dell’8 e 9 giugno, nel senso che abbiamo completamente eluso i problemi che l’Unione dovrà affrontare nei prossimi cinque anni; ciò, mentre abbiamo continuato a consolarci nella “oggicrazia” (copyright Luigi Tivelli) che è divenuta la (sub)cultura prevalente.
La questione europea nei prossimi anni si gioca sul terreno della sicurezza. Mario Draghi nelle anticipazioni del suo rapporto ha segnalato – per la prima volta – questo problema come prioritario. “Per soddisfare le nuove esigenze di difesa e sicurezza”, l’Ue deve “intensificare gli appalti congiunti, aumentare il coordinamento della spesa e l’interoperabilità delle attrezzature, e ridurre sostanzialmente le dipendenze internazionali”, ha detto Draghi. “Nel settore della difesa, la mancanza di” un’economia di “scala sta ostacolando lo sviluppo della capacità industriale europea. I primi cinque operatori negli Stati Uniti rappresentano l’80% del suo mercato più ampio, mentre in Europa ne rappresentano il 45%. Questa differenza deriva in gran parte dal fatto che la spesa per la difesa dell’Ue è frammentata”. E ha aggiunto ancora: “Ci siamo rivolti verso l’interno, vedendo i nostri concorrenti tra di noi, anche in settori come la difesa e l’energia in cui abbiamo profondi interessi comuni. Allo stesso tempo, non abbiamo guardato abbastanza verso l’esterno: con una bilancia commerciale positiva, dopo tutto, non abbiamo prestato sufficiente attenzione alla nostra competitività esterna come seria questione politica”.
Quando mai e da chi sono stati affrontati questi temi, in Italia, nel corso della campagna elettorale? Eppure, la sicurezza non è solo un obiettivo politico che richiede specifiche iniziative nel quadro delle alleanze; è anche una scelta di politica industriale ed economica perché va ad incidere sulla scelta dei settori trainanti di un nuovo modello di sviluppo. Se la Russia ha già adottato un’economia di guerra ci sarà un motivo. Da noi si continua a parlare di questi temi come se fossero un brutto sogno che svanisce al risveglio. In campo ci sono forze politiche vecchie e nuove che contrastano la prospettiva del riarmo in nome di una pace che si trova alla fine dell’arcobaleno (i colori della bandiera del pacifismo) della resa e della rinuncia. Ma la posizione di queste forze è chiara ed esplicita: basta armi all’Ucraina, basta sanzioni alla Russia. Viktor Orban lo ha già detto.
In questo quadro fosco e ingannatore, la sola mossa che non è ancora chiara riguarda Giorgia Meloni. Se la premier, come ha fatto fino ad oggi, intende mantenere la posizione che ha tenuto fin dall’inizio dell’aggressione russa, non può che condividere il piano lanciato da Ursula von der Leyen nel suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione, compreso il salto di qualità insito nel progetto di una difesa comune a livello europeo qualunque sia l’esito delle elezioni americane. Ma se questa è la prospettiva, è indispensabile il rafforzamento della governance dell’Europa anche a livello delle istituzioni, proseguendo nella linea della gestione dell’emergenza sanitaria e del NgEu. Nello slogan “l’Italia cambia l’Europa” non c’è solo un progetto di una nuova maggioranza tra Popolari e Destra senza i socialisti (come Meloni va sostenendo), ma è insita persino una visione del futuro prossimo dell’Unione che echeggia quello della “Europa delle patrie”.
Se le istituzioni europee – come sostiene Meloni – devono occuparsi dei grandi problemi, tra cui la sicurezza dei confini, devono essere messe in grado di poterlo fare, senza inciampare nella passione triste delle sovranità nazionali. Solo un soggetto politico più forte ed autorevole, garante di poteri sovrani più elevati e comuni, potrà e saprà affrontare sfide più impegnative.