Il tema delle tasse e della lotta all’evasione è, da sempre, ad alta tensione. Toccarlo a 18 giorni da una importante tornata elettorale significa rischiare di restare folgorati. Cosa che si è puntualmente verificata con la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale di un decreto ministeriale che individua le spese personali da prendere in considerazione per ricostruire “induttivamente” il reddito del contribuente. Il cosiddetto “redditometro”.
Apriti cielo! Il vice ministro Maurizio Leo è stato vittima di “fuoco amico” (e non) per tutta la giornata, fino a quando, nel tardo pomeriggio, è dovuta intervenire personalmente Giorgia Meloni per metterci una (provvisoria) pezza.
La foga di conquistare una finestra di visibilità agli occhi degli elettori ha purtroppo giocato qualche brutto scherzo, sia ad esponenti della maggioranza di governo che dell’opposizione ed ha solo aumentato la confusione in una materia che è già ostica e difficile da spiegare. Cosa che quasi tutti si sono guardati bene dal fare, essendo molto più facile piantare la bandierina del “fisco amico” (qualsiasi cosa, cioè nulla, voglia dire).
Allora è bene che i contribuenti sappiano che il fisco ha diversi modi per rettificare o accertare il reddito. Tra questi si trova la determinazione sintetica del reddito basata sulle spese sostenute oppure sul “contenuto induttivo” di alcuni elementi indicativi di capacità contributiva (“redditometro”). I cosiddetti “fatti indice” di capacità di spesa e propensione al risparmio, da cui si parte per risalire a un reddito presunto, per il quale il contribuente ha sempre facoltà di prova contraria. Tale procedura è consentito quando il reddito accertabile supera per almeno il 20% il reddito dichiarato.
Si tratta di una norma presente nell’ordinamento dal 1973 (articolo 38, commi 4-8 del DPR 600) e, nella forma che conosciamo, dal 2010 in seguito alla modifica voluta dal governo Berlusconi. Quindi niente di nuovo.
Da allora, ogni due anni, è necessario un decreto ministeriale per individuare le spese da utilizzare come indice segnaletico di capacità contributiva. L’ultimo risale al 2015, sotto il governo Renzi, che a luglio 2018 fu abrogato dal governo Conte 1, fermandone l’applicabilità ai redditi del 2015.
È evidente che, senza decreto ministeriale, l’accertamento sintetico è, da un lato, depotenziato perché non ci sono i “fatti indice” da cui risalire al reddito. Ma, dall’altro lato, l’accertamento è comunque possibile basandosi soltanto sul dato grezzo delle spese sostenute e consentendo maggiore arbitrio da parte degli organi accertatori. Perché la determinazione induttiva è solo un metodo per l’accertamento sintetico. I 352 accertamenti eseguiti nel 2022 ci danno anche la misura della residualità dello strumento.
Il governo avrebbe potuto fare, in alternativa, due cose: se davvero fosse stato contrario alla logica inquisitoria e da “stato di polizia fiscale”, avrebbe potuto abrogare l’articolo 38 e tutto l’impianto dell’accertamento sintetico, completando il lavoro cominciato nel 2018; se, come è invece avvenuto, si è sentito in dovere di seguire le indicazioni della Corte dei Conti che ha paventato un possibile danno erariale per l’assenza del decreto, significa che crede nello strumento. Che invece è da rottamare, perché risponde ad un rapporto fisco-contribuente che, almeno a parole, la maggioranza ripudia.
E la “sospensione” annunciata ieri sera dalla Meloni sa tanto di navigazione a vista sull’argomento. Restare nel limbo di una norma che esiste ma che, da 6 anni, è rimasta zoppa di un essenziale elemento applicativo, è come nascondersi dietro un dito. Se la maggioranza ritiene lo strumento “superato” – come da ordine del giorno approvato alla Camera – abroghi tutto.
Oppure verifichi con precisione le garanzie fornite da Leo, affinché questo strumento non consenta una “pesca a strascico” nelle tasche dei contribuenti e determini così un clima di sfiducia e incertezza.