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Spygate: Conte, Vecchione, Renzi e l’ambasciata Usa a Roma. Che cosa succede? L’approfondimento di Punzi

Il punto sullo Spygate fra Barr, Conte, Vecchione, Renzi e l’ambasciata Usa a Roma. L'approfondimento di Federico Punzi di Atlantico Quotidiano

 

Nell’intervista a La Stampa domenica Matteo Renzi chiede di “mettere fine alla strana anomalia che vede da anni i servizi dipendere solo dal premier: serve la nomina dell’Autorità delegata. Il ruolo che con me aveva Marco Minniti, per intendersi. E, prima di lui, Gianni De Gennaro”. Nella stessa intervista un esplicito attestato di stima per i professionisti che guidano Aise e Aisi, ma non per il capo del Dis Vecchione, scelto dal premier.

Lo stesso giorno, ospite di “In Mezz’ora”, Renzi rincara la dose. Chiede a Conte di chiarire sui contatti tra i servizi italiani e Barr ma, soprattutto, di mollare la delega sui servizi: “Dia la delega a un professionista. Lo suggerisco nell’interesse stesso del presidente del Consiglio”.

Una polemica che ci si potrebbe aspettare da un leader di opposizione, non della maggioranza. E proprio da senatore dell’opposizione Renzi, a quanto ci risulta, nell’ultimo anno di governo giallo-verde non ha mai posto la questione della “strana anomalia che vede da anni i servizi dipendere solo dal premier”, né in precedenza quando a detenere la delega è stato il suo successore a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni.

Nella sua enews settimanale, poi, Renzi ha liquidato come “ridicolo” un presunto complotto suo e di Obama contro Trump, ha reso noto di aver chiesto danni per “un milione di dollari” a Papadopoulos ed è tornato sui servizi segreti, che “difendo e difenderò sempre”. Ma, ha aggiunto, “penso che sia utile che, se ci sono dubbi sull’operato di qualche dirigente, si affronti il problema nella sede idonea, che è il Copasir”. E il riferimento sembra essere, di nuovo, all’uomo di Conte: Vecchione.

Tre duri interventi in due giorni. Mentre abbassa i toni della polemica sul taglio del cuneo fiscale e l’eventuale “rimodulazione” delle aliquote Iva, l’ex premier alza la tensione sull’intelligence, che sembra aver sostituito l’aumento delle tasse in cima alle sue preoccupazioni, tra le red line imposte a Palazzo Chigi. Renzi è comprensibilmente più sensibile al tema dei servizi da quando sono emersi gli incontri con Barr, che sottintendono una volontà di collaborazione del premier con gli uomini di Trump. In che fase è, e fin dove può arrivare questa collaborazione? È del tutto evidente che fondati o meno i sospetti di un coinvolgimento italiano nello SpyGate, Renzi fa bene a temere di passare mesi a difendersi da leaks rumors incontrollabili. La versione che oggi Conte fornisce a la Repubblica sugli incontri non è rassicurante per Renzi (e Gentiloni): volevamo “chiarire quali fossero le informazioni degli Stati Uniti sull’operato dei nostri servizi all’epoca dei governi precedenti“.

La soluzione di compromesso che secondo la Repubblica il Pd si preparerebbe “informalmente” ad avanzare, per chiudere almeno questo fronte di tensione nella maggioranza, è “attribuire la delega a Marco Minniti”. Guarda un po’, proprio colui al quale i premier Letta e Renzi, del Pd, l’hanno affidata nel 2016, il periodo delle elezioni presidenziali sotto la lente di ingrandimento a Washington.

Da Palazzo Chigi non si nasconde anzi si palesa l’irritazione di Conte, che non intende cedere al diktat di Renzi. Il premier se la prende con quelle che definisce “ricostruzioni false e fuorvianti”, con “fonti che vogliono screditare l’operato dei servizi e alterare la realtà”, “giochi interni che ci sono sempre stati ma che ora non accetta più”. Dopo che avrà parlato al Copasir, “si occuperà personalmente di un chiarimento interno”. Con chi ce l’ha? Di sicuro con chi alimenta “fughe di notizie o frammenti parziali di informazioni sui giornali”. Si riferisce, forse, alle fonti dei servizi che all’Ansa hanno raccontato che all’incontro con Barr e il procuratore Durham i direttori di Aise e Aisi, Luciano Carta e Mario Parente, hanno partecipato perché “convocati per iscritto” da Vecchione; che nessun nastro di Mifsud, nessun elemento o dossier relativo al professore sarebbe stato fornito agli inviati di Trump, contrariamente a quanto riportato da altri media; che si sarebbe trattato di “un semplice incontro di cortesia”, in cui i nostri 007 “si sono limitati a spiegare che non sanno nulla di che fine abbia fatto Mifsud” e che “per qualsiasi richiesta la strada più idonea da seguire è quella dei canali ufficiali, tramite rogatoria”. Quasi una nota per smarcarsi, opera forse di quei livelli intermedi dei servizi che hanno subito approfittato della polemica per mettere sulla graticola Vecchione.

Conte insiste anche che l’incontro con Barr e Durham si sarebbe tenuto a Piazza Dante, sede dei servizi italiani, e non all’ambasciata Usa come riteniamo più probabile: un dettaglio politicamente rilevante, quello della territorialità, che definisce i rapporti di forza tra gli interlocutori (sono venuti loro da noi, non il contrario). “Sono più duro perfino di quanto fu Bettino Craxi a Sigonella” nel difendere l’interesse nazionale (quando nel 1985 Craxi si rifiutò di consegnare un terrorista atterrato in Italia al presidente Reagan), si difende il premier secondo un retroscena di oggi sul Corriere. Dunque, dobbiamo concludere che si sarebbe rifiutato di “consegnare” Mifsud? Comunque, non un paragone rassicurante per Washington.

Come abbiamo già cercato di spiegare, gli incontri dei vertici della nostra intelligence con Barr mettono il premier Conte in una delicatissima posizione, dal momento che una piena collaborazione con le autorità americane potrebbe significare esporre le componenti della sua attuale maggioranza: le indagini potrebbero infatti far emergere la vicinanza di Mifsud a esponenti politici Pd ferventi ammiratori di Hillary Clinton, come Pittella, il ruolo del nostri servizi sotto i governi Renzi e Gentiloni, nonché quello della Link Campus e i suoi rapporti con lo stesso mondo dell’intelligence e con il Movimento 5 Stelle.

Da una parte Renzi, dunque, ma dall’altra, sui rapporti con l’amministrazione Trump si è aperto un secondo fronte, con un’altra gamba della maggioranza: i 5 Stelle, a partire dal ministro degli affari esteri Luigi Di Maio, che chiedono di ridimensionare gli acquisti di F35, un nuovo caso Tav. E anche qui il premier si barcamena: “Conte è d’accordo sulla rinegoziazione”, fanno sapere fonti di Palazzo Chigi. Bene, ora bisogna avvertire la Casa Bianca… Posizione altrettanto difficile però quella di Renzi, che può intensificare la sua pressione ma che non può permettersi (non ancora) di far cadere il governo, ammesso che i “suoi parlamentari” siano disposti a sacrificarsi per lui.

Non solo Renzi e Conte, un certo nervosismo si avverte anche dalle parti dell’ambasciata Usa a Roma. Alcuni diplomatici e funzionari d’intelligence di Via Veneto non sapevano bene quale fosse il motivo della visita di Barr a Roma, ha scritto domenica il New York Times, citando due fonti secondo cui furono “sorpresi” di scoprire che l’Attorney General aveva aggirato i protocolli nell’organizzazione della sua missione, durante la quale ha incontrato funzionari politici e dei servizi italiani.

Credendo di esporre l’irritualità della visita di Barr, queste fonti in realtà stanno mettendo in evidenza quanto poco gli uomini del presidente si fidano dei propri funzionari. Un autogol, un’autodenuncia. In effetti l’ambasciata a Roma, insieme ai centri culturali a stelle e strisce nella capitale, è tra i nodi dell’amministrazione Usa dove è più attiva la resistenza anti-Trump e più intatta la rete di amicizie clintoniane. Il che non fa che alimentare il sospetto che nel 2016 qualche attività per sabotare il candidato e poi presidente eletto Trump possa esserci stata.

(Estratto di un articolo pubblicato su atlanticoquotidiano.it)

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