Skip to content

Spigolature sugli intellettuali italiani

Il Bloc Notes di Michele Magno

In Italia c’è un clima da anni Trenta e ha preso il potere una figlioccia di Mussolini? Non esageriamo, e non facciamo favori a “Yo soy Giorgia”. La verità è che, quando crisi economico-sociale e discredito della classe politica vanno di pari passo, nasce l’invocazione dell’uomo (nel nostro caso, della donna) forte. E i suoi seguaci sono inclini a giustificare qualche “strappo alle regole”, purché serva a difendere il popolo dai nemici interni ed esterni, restituendo al paese ordine, sicurezza, sovranità. “Un uomo forte come Richelieu/ci porterebbe tutti quanti in porto”, è la filastrocca che veniva cantata nelle bettole parigine alla vigilia del colpo di stato del Brumaio (dicembre) 1799. A quel primo modello di stampo napoleonico si sarebbero poi ispirati molti protagonisti dei vari totalitarismi fioriti nel Novecento.

Tuttavia, qualsiasi sottile distinzione si voglia fare in materia di totalitarismo, il contrasto con la liberaldemocrazia rimane irriducibile. Ma è un contrasto che da noi non sembra infiammare i cuori di molti elettori. Certo, la storia del nostro regime parlamentare è costellata di “capi” che hanno riscosso l’ammirazione e la devozione dei loro concittadini. Ma il capo è democratico, come ha osservato Giuseppe Galasso (“Liberalismo e democrazia”, 2013), solo se inscrive se stesso e la propria azione nella logica e nelle forme della democrazia, non se inscrive la logica e le forme della democrazia in quelle della propria azione e dei propri fini. In ultima analisi, l’uomo (o la donna) forte è un mito che riflette sempre una condizione di disagio dei ceti popolari. Ad essa si può reagire, parafrasando il titolo di un celebre libro di Albert O. Hirschmann (“Lealtà, defezione, protesta”, 1982), denunciandone i rischi o disinteressandone.

C’è però anche una terza possibilità: il “mi adeguo”, per codardia o per convenienza. Esso è la massima espressione di lealtà verso il vincitore di turno, la vera alternativa sia alla defezione che alla protesta. Del resto, dopo i liberali per Salvini sono subito spuntati come funghi i liberali per Meloni. Ma chiunque progetti di conquistare il palazzo del potere è bene che se lo ricordi: per la sua ubicazione sui colli di Roma, notoriamente dal clima temperato, non sarà mai un Palazzo d’Inverno.

****

Da noi ci sono intellettuali talmente di sinistra per i quali la sinistra che c’è non è mai la sinistra che sognano. Hanno speso una vita a demolire il craxismo, il berlusconismo, il prodismo, il renzismo. Sempre dalla parte degli oppressi, hanno scritto libri vibranti di indignazione contro l’eterna vocazione autoritaria, compromissoria, subalterna, trasformistica, premoderna, delle italiche classi dirigenti. La domenica predicavano nuovi modelli di sviluppo, naturalmente alternativi a un capitalismo cieco e disumano. Nei giorni feriali ci spiegavano che tra democrazia e mercato esiste una contraddizione insanabile. Negli anni bisestili era il turno delle grandi utopie: dalla liberazione dal lavoro alla kantiana pace perpetua. Severi custodi della Costituzione più bella del mondo e inflessibili guardiani di ogni immobilismo istituzionale, si sono poi convertiti all’etica della responsabilità. Hanno quindi cominciato a corteggiare quelli che volevano aprire il Parlamento come una scatoletta di tonno. E oggi ripropongono un patto elettorale tra il nuovo Pd di Elly Schlein e il neomovimento pacifista di Giuseppe Conte, “le trasformiste italien” definito dal Beppe Grillo d’antan “senza visione politica e capacità d’innovazione”. Sic transit gloria mundi.

Poco prima della sua morte, Eric Hobsbawm osservava con una punta di nostalgia che l’epoca in cui gli intellettuali erano il principale volto pubblico dell’opposizione al potere apparteneva ormai al passato. Lo storico britannico del “secolo breve” descriveva così il declino di una delle figure centrali del Novecento, fosse al servizio delle élite dominanti, organico a un partito, un cane sciolto. Ma l’intellettuale è sempre stata una bestia strana. Qual è infatti il suo mestiere? Secondo Luciano Bianciardi, insofferente a ogni establishment culturale, era indefinibile. Per l’autore della “Vita agra” il vero intellettuale, in fondo, è -o dovrebbe essere- schiavo di tutti e servo di nessuno. In ogni caso, non un acrobata del circo equestre nazionale.

****

Il nome di Torquato Accetto è passato ai posteri per un trattatello intitolato “Della dissimulazione onesta”, piccola gemma del moralismo politico nell’età barocca. Pubblicato nel 1641, fu riscoperto da Benedetto Croce. Il filosofo, infaticabile e appassionato esploratore di vecchie carte dimenticate, lo ripropose in piena epoca fascista (1928) presentandolo come un “saggio di psicologia prudenziale”, scritto da chi “sa di doversi muovere sulla terra, ma non dimentica il cielo”. In effetti, con dotti e sottili ragionamenti, Accetto suggeriva un codice etico secondo il quale sarebbe stato non soltanto lecito, ma addirittura necessario, usando l’arte della pazienza, nascondere i propri pensieri e moti dell’animo per salvaguardare il corpo e la mente da violenze e oppressioni esterne (allora il regno di Napoli era sotto il dominio spagnolo).

La dissimulazione onesta, insomma, per lui non era fraudolenta ipocrisia, ma virtù del saper vivere, “una moderata oblivione, che serve di riposo agli infelici; e, benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non si può far di meno per respirare  in questo mondo”. Forse a questo modello di comportamento si ispira la condotta, nell’Italia sovranista, di taluni intellettuali pavidi e amanti del quieto vivere, un tempo assai bellicosi contro le derive autoritarie della stagione renziana. Allora, invece, sembravano assai più vicini a un contemporaneo del letterato pugliese, Tommaso Campanella, quando ammoniva che la fatica più dura è “pigliare abito allegro nella presenza dei tiranni”, e che non ” è lecito mostrarsi pallido mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente”.

Torna su