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Castrazione

Spigolature storiche: la Comune di Parigi, il traditore, la castrazione euphonica, il gladiatore

Il Bloc Notes di Michele Magno

L’Ottocento liberale europeo segna il trionfo della libertà del parlamentare, pur nei limiti di un corpo elettorale ristretto e di una rappresentanza concepita come “scelta dei migliori”. Non così, o non del tutto così, sull’altra sponda dell’Atlantico: nella seconda metà del secolo era entrato in scena il “Progressive movement”, uno schieramento trasversale di forze sociali e politiche unito nella lotta per la riforma dei partiti mediante le primarie, e per la democrazia diretta mediante gli istituti del referendum e del “recall”. Quest’ultimo, tuttora vigente in alcuni Stati degli Usa (e, con diverse motivazioni, anche in Giappone e in alcuni paesi latinoamericani), designava il potere degli elettori di rimuovere un pubblico ufficiale prima della scadenza naturale del suo incarico. L’istituto del “recall” fu utilizzato dalla Comune di Parigi (1871) nel suo esperimento di autogoverno municipale. Esaltato da Marx, nel 1917 ispirò Lenin nella organizzazione dei soviet degli operai e dei contadini (e dei soldati), protagonisti dello sgretolamento dell’impero zarista. Il principio del mandato imperativo — cardine dell’ordinamento bolscevico — verrà poi inserito nella Costituzione dell’Urss del 1918.

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L’archetipo del traditore nel Medioevo è Giuda. È con il suo nome che vengono marchiati tutti i nemici della fede, i maomettani e i saraceni. La giudefobia cristiana culmina con l’espulsione degli ebrei decretata da Filippo Augusto in Francia (1182) e da Edoardo I in Inghilterra (1290). All’inizio del Trecento, a inchiodare Giuda nel ruolo di traditore per antonomasia ci sono gli affreschi di Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova, e quelli di Pietro Lorenzetti nella basilica di San Francesco ad Assisi. E c’è, naturalmente, Dante. Nel XXXIV canto dell’Inferno Giuda viene collocato nella bocca centrale di Lucifero, accanto a Bruto e Cassio. Per il sommo  poeta, i tre peggiori traditori della storia avevano frodato i loro benefattori, i loro mentori, i loro amici. Fino all’undicesimo secolo, il tradimento era essenzialmente un atto di “infidelitas” del vassallo, di rottura del contratto feudale.

Dalla metà del Duecento, si configura (eredità del diritto romano) come un atto di lesa maestà contro il re, sanzionato con afflizioni terribili. Inoltre, è da allora che il termine “corona” viene usato per simboleggiare l’unità — anche spirituale — tra il sovrano e i suoi sudditi. Le nuove concezioni del tradimento emerse con la guerra dei Cent’anni (1339-1453), vengono riassunte dal giureconsulto transalpino Jean Boutillier nella sua “Somme rurale” (1390): è tradimento l’assassinio del proprio signore, mentre è lesa maestà qualunque “mancanza di riguardo” per il monarca. In realtà, questa distinzione era già presente in quello Statuto, promulgato nel 1351 dal re d’Inghilterra Edoardo III, che contemplava pene differenti per gli ecclesiastici (l’annegamento), per le donne (il rogo), per gli uomini (lo sventramento e — talvolta — l’evirazione).

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La castrazione “euphonica”, cioè per fini musicali, nel corso del Settecento è stata una pratica quasi esclusivamente italiana. Decine di migliaia di giovinetti in età prepuberale — spesso orfani o di umile lignaggio — erano privati dei loro testicoli, recisi clandestinamente da norcini e barbieri. All’epoca non esisteva ancora l’anestesia; al più venivano storditi con una dose di laudano. Consapevoli quindi di rischiare la morte, ma spinti dalla speranza di salire nella scala sociale. Con la diffusione del melodramma, le “voci bianche” di Baldassarre Ferri, Matteo Sassano, Nicolò Grimaldi, Giovanni Battista Velluti erano adorate — e ben retribuite — dal pubblico che gremiva i teatri di tutta Europa.

Friedrich Händel ne era entusiasta. Carlo Broschi (in arte Farinelli), la più famosa ugola d’oro dell’epoca, invitato da Elisabetta Farnese alla corte di Spagna, vi resterà per ventidue anni come direttore degli spettacoli reali. Simbolo dell’opera lirica metastasiana, la sua stella si spegnerà — con disappunto di Gioacchino Rossini — nel nuovo firmamento dei tenori col “do di petto”, dalla virilità innegabile, perfetta per il gusto del Romanticismo. Dopo un’ultima esibizione alla Fenice di Venezia nel “Crociato in Egitto” di Giacomo Meyerbeer (1824), i cantori evirati continueranno ad esibirsi nei cori ecclesiastici. Nel 1878 Leone XIII ne proibisce l’ingaggio, ma solo nel 1903 un motu proprio di Pio X sulla musica sacra porrà fine alle loro prestazioni: “Se dunque si vogliono adoperare le voci acute dei soprani e dei contralti, queste dovranno essere sostenute dai fanciulli, secondo l’uso antichissimo della Chiesa”.

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A differenza dall’iconografia cinematografica, i gladiatori (da “gladium”, l’arma dei legionari) combattevano sempre individualmente. I più apprezzati dal pubblico erano i duelli asimmetrici, in cui i lottatori si affrontavano con armamenti diversi ma con le stesse probabilità di successo: in particolare, quelli tra il reziario (“retiarius”), così chiamato perché munito di una rete, e l’inseguitore (“secutor”); oppure tra il trace e il mirmillone (“murmillo”), entrambi dotati di una spada corta ma di foggia diversa. Appena un gladiatore si arrendeva, l’arbitro fermava il combattimento. A quel punto, toccava agli spettatori giudicare se lo sconfitto meritava la grazia per il coraggio mostrato.

Non sappiamo con certezza quali fossero i gesti usati per concederla o negarla. È tuttavia certo che il pollice “recto” o “verso” nell’antica Roma era sconosciuto, così come era ignota la celebre invocazione “Ave Caesar, morituri te salutant”, che fu pronunciata per la prima volta davanti all’imperatore Claudio (41-54 d.C.) durante una “naumachia” (battaglia navale) in un bacino scavato nei pressi del Tevere. Lo storico francese Georges Ville ha stimato che nel I secolo dell’era volgare otto volte su dieci lo sconfitto aveva beneficiato della grazia (“missio”). Ma esistevano anche “munera sine missione” (senza grazia), in cui gli spettatori non potevano modificare il verdetto di morte per il vinto. Augusto (27 a.C.-14 d.C.) li vietò, ma non per ragioni umanitarie. Essi, infatti, privavano il popolo di un potere decisionale che era rischioso mettere in discussione.

 

 

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