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Sindacati: protagonisti della rinascita o rischio emarginazione?

Obbiettivi, problemi e sfide dei sindacati. Il Taccuino di Walter Galbusera

 

Il sindacato italiano è composto da migliaia di funzionari a tempo pieno e decine di migliaia di quadri militanti, è presente in tutto il paese e fra tutte le categorie, lavoratori attivi o pensionati. Le confederazioni “maggiormente rappresentative” a carattere nazionale (Cgil, Cisl, Uil, Ugl e Confsal) raggiungono le dimensioni di una media multinazionale e dispongono di risorse importanti anche se, allo stato delle cose, è pressoché impossibile disporre di un bilancio consolidato. Ciò perché nell’assetto organizzativo sia le strutture orizzontali e territoriali (cui competono le politiche generali) che le diverse categorie (titolari della contrattazione), sono articolati a livello nazionale, regionale e provinciale con bilanci autonomi.

Si pensi che volendo determinare il volume complessivo delle risorse di cui dispongono Cgil,Cisl e Uil si dovrebbero consolidare circa 1200 bilanci delle più varie dimensioni oltre agli enti e alle società del sindacato ai vari livelli. Le entrate sono determinate dalle “deleghe”, veri e propri contratti trilaterali tramite i quali le imprese trasferiscono ai sindacati le quote degli iscritti, da contributi legati a specifici eventi, da distacchi retribuiti contrattati con i datori di lavoro privati e pubblici, da agevolazioni diverse tra cui le più rilevanti riguardano i contributi previdenziali. Lo stesso consistente flusso di entrate derivante dai cosiddetti “servizi” che vanno dalle vertenze di lavoro all’assistenza fiscale, previdenziale, legale e alla sicurezza del lavoro costituiscono qualcosa di più di un asset finanziario. Sono un patrimonio relazionale enorme fondato sul rapporto fiduciario che si instaura tra il singolo e l’organizzazione, uno strumento di difesa delle condizioni di vita dei lavoratori di cui si avverte la necessità proprio nei momenti difficili.

Il sindacato ha saputo costruire nel tempo un articolato impianto di autofinanziamento che può essere discusso nel merito ma non nella legittimità e ha raggiunto dall’autunno caldo in poi un obiettivo fondamentale: quello di unire alla crescita enorme del suo potenziale peso politico la conquista della propria autonomia economica e organizzativa. Gli interlocutori del sindacato non lo devono sottovalutare.

Ma che uso fa oggi il sindacato della sua forza e perché l’obbiettivo dell’unità organica è scomparsa dai radar di Cgil, Cisl e Uil?

In questo momento, al di là della grave emergenza sanitaria, che si supererà gradualmente, si pongono preoccupanti interrogativi sulla tenuta di un sistema economico, sociale e (anche) politico del nostro paese. Inquieta ancor più l’incapacità sinora dimostrata nel progettare in maniera organica un utilizzo delle ingenti risorse dell’Unione europea per incidere sui nostri ritardi strutturali. A parte il ridicolo balletto sul Mes “sanitario”, non emergono obiettivi chiari e selezionati per aumentare la capacità competitiva del sistema Italia che non potrà mai ripartire senza una amministrazione pubblica moderna ed efficiente. Invece si guarda con malcelata soddisfazione più ai “grants” che ai “loans” ignorando che se i debiti andranno restituiti, il ” fondo perduto” sarà finanziati da un prelievo fiscale aggiuntivo della Ue a cui tutti i paesi dovranno rinunciare nel proprio bilancio nazionale.

In questo scenario, il sindacato, pur colto di sorpresa da un evento simile ad un terremoto, sottovaluta le nuove differenza sociali che la pandemia ha in parte creato e in parte accelerato e continua a svolgere la propria azione sul piano rivendicativo e delle forme di lotta secondo canoni tradizionali. Ma è cambiato tutto: per evitare l’isolamento e la sconfitta è necessario adattare le strategie alla nuova realtà.

La priorità oggi, per garantire il lavoro, è la difesa della competitività del sistema produttivo e l’efficienza della pubblica amministrazione che ha bisogno di un modello contrattuale che si avvicini sempre più a quello privato in cui vengano premiati il merito e la responsabilità. Non si tratta di una ritirata ma di un adeguamento alle nuove circostanze. Lo stesso leader della Cgil, Maurizio Landini, nel confronto con il presidente di Confindustria Bonomi ha sottolineato che il sindacato da solo oggi non ce la fa a trovare soluzioni adeguate. Occorre condividere col “padrone” visioni e interessi a partire da una concezione moderna che viva l’impresa come una realtà in cui convivono rilevanti interessi comuni tra capitale e lavoro.

Il conflitto ha un suo naturale e necessario spazio fisiologico nella ripartizione dei risultati, tanto più in una dimensione partecipativa accettata e promossa con convinzione dalle parti sociali. È nella contrattazione aziendale che si giocano le carte migliori perché è lì che si crea e si divide il valore attraverso intese che adattano l’organizzazione del lavoro alle nuove esigenza. Persino una rivendicazione di riduzione di orario a parità di retribuzione, improbabile a livello generale, potrebbe essere realizzata in sede aziendale. Emergono i limiti di una contrattazione centralizzata che portò la Cgil (sconfitta) di Di Vittorio negli anni cinquanta a lanciare la parola d’ordine del “ritorno in fabbrica!”. La stessa polemica sulle “gabbie salariali”, ha poco senso.

Le differenze retributive “di fatto”, territoriali e categoriali, nei settori privati sono determinate sia dai conti economici dei differenti comparti che dalle dinamiche inflattive territoriali. Elevare i “minimi” in termini sostanziali attraverso i rinnovi dei contratti nazionali significherebbe, nella migliore delle ipotesi, sospingere nel mercato nero del lavoro le imprese marginali.

Ma è nel pubblico impiego statale, dove la contrattazione è fortemente centralizzata che persistono contraddizioni clamorose che fanno emergere vere e proprie gabbie salariali alla rovescia in cui il potere d’acquisto nelle aree economicamente più povere è più alto che nel centro nord e che fanno gridare alla “deportazione” (o a rinunciare) gli insegnanti vincitori di concorso che si dovrebbero trasferire nelle nuove sedi. Non si tratta di pagare meno gli insegnanti del sud ma di pagare di più quelli che lavorano al centro nord.

La stessa difesa dell’occupazione non si può limitare al blocco dei licenziamenti. Non solo perché, come insegnano esperienze passate, non potrà durare a lungo ma soprattutto perché non si deve perdere tempo, non solo per consentire alle aziende di ristrutturarsi e di sopravvivere, ma in primo luogo per far funzionare politiche attive del lavoro che garantiscano gli ammortizzatori sociali e assicurino nello stesso tempo una possibilità di qualificazione o di riconversione professionale per la ricerca di una effettiva ricollocazione.

Il lavoro del sindacato è assai impegnativo ma non esistono scorciatoie e non è la prima volta che si trova in situazioni difficili.

Sarebbe anche importante capire se l’antico progetto di unità sindacale sia attuale. Tutto dipende da due variabili, la prima è quella dall’esistenza o meno di un forte differenza identitaria tra le principali organizzazioni. Rispetto al passato questa “diversità” sembra essersi attenuata ma non è escluso che, di fronte a inevitabili assunzioni di responsabilità, si riproponga con forti divaricazioni.

La seconda è più pragmatica perché, in assenza oggettiva di una forte spinta dai luoghi di lavoro, l’unificazione finirebbe per assomigliare un po’ alla nascita di una nuova azienda che ne assembla altre preesistenti. È comprensibile che nascano enormi difficoltà nel costruire nuovi organigrammi in tutti settori e in tutti i territori. È assai più probabile che, sulla base di norme condivise, l’elezione certificata dei delegati in tutti luoghi di lavoro definisca implicitamente rappresentanza e rappresentatività di ciascuna organizzazione e si adotti una “unità delle regole” che, ad ogni livello, affidi al voto di maggioranze qualificate le decisioni più importanti.

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