Nei giorni scorsi Cgil, Cisl, Uil e Confindustria, a seguito di una serie di accordi iniziati nel 2011, hanno sottoscritto con l’INPS e con l’Ispettorato del Lavoro una convenzione per la certificazione della rappresentanza sindacale. Non appare tra i firmatari il CNEL che nei precedenti accordi aveva un ruolo centrale di garanzia. Con questo atto, che per essere definitivo richiede una regola analoga di misurazione della rappresentatività delle organizzazioni imprenditoriali, si compie un passo avanti decisivo in materia di rappresentatività delle parti sociali. Siamo però ancora lontani dalla applicazione dell’articolo 39 della Costituzione, che attribuisce a sindacati e imprese la possibilità di essere fonti di produzione giuridica quando sottoscrivono contratti collettivi nazionali (che ovviamente comprendono anche i minimi salariali) in rappresentanza della maggioranza degli iscritti, e conferisce a tali accordi una efficacia “erga omnes”. Ciò non tanto per il criterio misto di determinazione della rappresentatività (iscritti e delegati eletti) del recente accordo, che appare in contrasto con il riferimento esclusivo agli iscritti della norma costituzionale. Questo non è un ostacolo insormontabile. In fondo la stessa norma costituzionale potrebbe essere adeguata ad una formulazione che è stata concordata tra le parti che oggi sembra essere più equilibrata. Il punto è che per una serie di ragioni, per la verità assai poco motivate, sindacati e imprenditori intendono perseguire una soluzione alternativa all’articolo 39, utilizzando l’articolo 36 che si richiama in via di principio alla “giusta ed equa retribuzione”.
Nell’intenzione del ministro del lavoro 5 Stelle in questo modo si introdurrebbe “il salario minimo legale”, ma di questo percorso si potrebbe ampiamente discutere anche sotto il profilo della legittimità costituzionale. L’ostacolo principale al “39” sembrano rimanere le condizioni, del tutto ragionevoli, poste ai sindacati dalla Costituzione: un ordinamento interno a base democratica e la registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge che dovrebbero essere emanate. Si tratta di normali garanzie a fronte del riconoscimento di un diritto a legiferare a soggetti che non sono organi costituzionali.
Cosa spiega la profonda ostilità, che viene per la verità da lontano, del sindacato versus l’articolo 39? Tanto più se il vituperato “39” sarebbe la soluzione più semplice se l’obiettivo dichiarato del sindacato è quello di arrestare la proliferazione dei contratti “pirata” registrati in sede Cnel, che in totale ammontano alla bellezza di 868 di cui due terzi assai sospetti. Allo Stato però non tutti i contratti diversi da quelli sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil possono considerarsi “pirata” solo perché comportano tra loro clausole difformi o contengono deroghe peggiorative.
L’elemento determinante, anche se non esclusivo, è la volontà delle parti, effettivamente rappresentativa e liberamente espressa. Tanto più se prendesse piede l’adozione del modello contrattuale tedesco, nel quale aziende e sindacati possono decidere di uscire dal contratto nazionale collettivo di categoria per adottarne uno aziendale.
Del resto le stesse Cgil, Cisl e Uil nel protocollo precedente sottoscritto il 10 gennaio 2014 riconoscono che “i contratti collettivi aziendali possono attivare strumenti di articolazione contrattuale mirati alla capacità di aderire alle esigenze degli specifici contesti produttivi” e “possono pertanto definire, anche in via sperimentale e temporanea, specifiche intese modificative nei limiti e con le procedure previste dagli stessi contratti”. Ma anche, ove queste non fossero previste, seppur in via transitoria,”i contratti collettivi aziendali, al fine di gestire situazioni di crisi o in presenza di investimenti significativi per favorire lo sviluppo economico e occupazionale dell’impresa possono definire intese modificative della prestazione lavorativa, degli orari e dell’organizzazione del lavoro.” Per fare un esempio, gli accordi a suo tempo realizzati da alcuni sindacati con FCA e votati dalla maggioranza dei lavoratori, ma non sottoscritti da una organizzazione sia pur importante come la Fiom-Cgil, non si potrebbero definire accordi “pirata”.
In ogni caso la decisione di superare la pariteticità tra organizzazioni nella designazione dei rappresentanti sindacali aziendali e di far eleggere i delegati su base proporzionale è oggettivamente rilevante e, soprattutto, coraggiosa per le organizzazioni numericamente più deboli. E’ un passo importante, non verso l’unità sindacale organica che oggi appare comunque lontana, ma verso quella unità delle regole che riconosce a ciascuno il proprio peso e consente di assumere, secondo procedure che prevedono anche il ricorso al referendum, decisioni definitive. E’ chiaro che, laddove esiste una organizzazione sindacale che ha la maggioranza assoluta, questa può decidere per tutti. Ma per firmare un contratto occorre la volontà della maggioranza di entrambe le parti sociali.
Sindacati e imprese rimangono però lontani dal raccogliere la lungimirante prospettiva dei Padri della Costituzione che indicarono un progetto organico di ingresso delle forze sociali nelle istituzioni e nel governo dell’economia con l’attribuzione di funzioni assai rilevanti e con l’assunzione delle responsabilità che ne derivano.
I tre articoli fondamentali come il 39 (la rappresentanza e la funzione legislativa), il 40 (la regolamentazione delle modalità di esercizio del diritto di sciopero), il 46 (la partecipazione alla gestione delle imprese) rappresentano un tutto organico a cui dovrebbero richiamarsi un sindacato e un’impresa moderna. Nei recenti accordi, che pur vanno incoraggiati, c’è poco di tutto questo soprattutto se pensiamo alla urgenza con cui dovremmo riformare la società italiana.
Gli articoli 39,40,46 della Costituzione più bella del mondo, rimangono una sorte di “triangolo delle Bermude” nel quale scompare ogni tentativo di “costituzionalizzare” le forze sociali in Italia. Il “Sindacato dei cittadini” può attendere.