skip to Main Content

Silvia Romano

Silvia Romano e l’Italia, va celebrata la resa ad Al Shabaab?

Trattare con i terroristi islamici di al Shabaab, affiliati ad al Qaeda e tra i più sanguinari, ed eventualmente pagare un riscatto, è forse una via obbligata ma non va ostentata e celebrata. L'analisi di Federico Punzi, direttore editoriale di Atlantico Quotidiano

 

Una ragazza partita in canottiera per far del bene in Africa, torna ricoperta dalla testa ai piedi con un lenzuolo verde, una tunica indossata dalle donne somale islamizzate nei territori ancora controllati dagli al Shabaab.

Lo diciamo subito a scanso di equivoci: non si lascia una connazionale nelle mani dei tagliagole islamici. C’è un però. Ed è un però che riguarda lo status del nostro Paese, un dato che ci deve interrogare come comunità.

La consapevolezza che il denaro consegnato a quei tagliagole metterà in pericolo molte altre vite, italiane ma principalmente africane. Italiani che si sono messi in gioco, per lavoro o per volontariato, in zone del mondo a rischio. E africani che rischiano tutti i giorni di essere trucidati da jihadisti da noi rinforzati nelle loro casse e nella loro immagine.

Questo è purtroppo un argomento che, per quanto si possa gioire per il ritorno sana e salva di una ragazza di 25 anni, non può essere eluso nel dibattito pubblico. Anche per una stridente contraddizione: non vale all’estero il principio della legge che nel nostro Paese vieta di pagare riscatti ai rapitori, addirittura bloccando i beni delle famiglie per impedire trattative private, e che ha di fatto stroncato il business dei sequestri di persona.

Il ritorno di Silvia è una festa per la sua famiglia e non potrebbe essere altrimenti, ma è una resa per la Repubblica italiana e il mondo civile.

Trattare con i terroristi islamici di al Shabaab, affiliati ad al Qaeda e tra i più sanguinari, che in Africa – forse non tutti lo sanno – si sono macchiati di stragi orrende di uomini, donne e bambini, ed eventualmente pagare un riscatto, è forse una via obbligata, ma non un qualcosa che possa essere ostentato e celebrato all’aeroporto come una brillante operazione di cui andare fieri e da sbandierare al mondo intero.

Anche perché non è il riscatto in sé, è la passerella mediatica del presidente del Consiglio e del ministro degli esteri a mandare un messaggio devastante. Il messaggio di un governo pronto non solo a pagare i terroristi, ma anche a prestarsi alla propaganda jihadista (tale è stata riabbracciare festanti un ostaggio convertito all’islam, non si sa bene come, dopo 18 mesi di prigionia, sceso dall’aereo con indosso una tunica islamica), pur di trarre un qualche vantaggio in termini di consenso da un lieto fine dal punto di vista umano e famigliare, ma non certo politico. Certe cose, se si fanno, si fanno in silenzio e poi non si sbandierano ai quattro venti.

La foto che vedete di Silvia Romano è stata scattata molto probabilmente in Somalia, subito dopo la sua consegna da parte di chi l’ha tenuta in ostaggio per 18 lunghi mesi. La ragazza è ripresa sul sedile posteriore di un pick-up e indossa un giubbetto antiproiettile turco, come si può vedere dalla mostrina.

Pubblicata dall’agenzia di stampa Anadolu, ieri sera ha fatto il giro di tutti i media turchi, ma sui social italiani l’ha rilanciata Mariano Giustino, il corrispondente di Radio Radicale dalla Turchia.

Questa foto suggerisce un ruolo ben più centrale dei servizi segreti turchi nella conclusione della vicenda, non un semplice “aiuto”. E cioè, che siano stati proprio i turchi a prelevarla e poi consegnarla alle autorità italiane.

E questo dovrebbe suonare come un campanello d’allarme: in Somalia, così come in Libia, per combinare qualcosa dobbiamo telefonare ad Ankara. Il che la dice lunga sulla nostra irrilevanza persino nelle nostre (ormai ex) aree di influenza.

(Estratto di un articolo pubblicato su Atlantico Quotidiano, qui la versione integrale). 

Back To Top