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Povertà

Siamo davvero un Paese sull’orlo della povertà?

Noterelle sulla questione sociale in Italia. Il Bloc Notes di Michele Magno

Siamo un paese sull’orlo dell’indigenza? Così parrebbe da certe narrazioni dei principali partiti dell’opposizione parlamentare (sonoramente sconfitti -anche per questo?- nelle recenti elezioni amministrative). Eppure siamo un pae­se che è al primo posto in Europa per possesso di abitazioni, autoveicoli, cellulari. Al secondo per animali da compagnia. Un paese in cui il giro di affari legato al gioco d’azzardo -legale e illegale- sfiora la cifra incassata dall’im­posta sul reddito. Un paese che, per conoscere il futuro da ma­ghi e fattucchiere, spende più di quanto viene accantonato annualmente per i fondi pensione. Un paese in cui sono più di otto milioni i pensionati assistiti totalmente o parzialmen­te dalla fiscalità generale.

Infine, è vero che il numero delle persone in povertà assoluta negli ul­timi tre lustri è raddoppiato. Senza però dimenticare che gran parte della povertà economica deriva dalla povertà educativa e sociale di cui soffrono quasi dieci milioni di italiani, molti dei quali affetti da dipendenza da alcol, droghe, ludopatie o da altri problemi alimentari come anoressia e bulimia. Una dura realtà in cui andrebbe incluso anche chi viene a trovarsi in si­tuazioni di improvvisa difficoltà in seguito a precoci separa­ zioni o divorzi. Benché, dunque, il numero dei poveri sia in salita, non siamo un paese povero. Siamo però un paese che ha un’evasione fiscale e un’economia sommersa stratosferiche, e che tra quelli dell’area Ocse vanta il triste primato (dopo la Turchia) del più alto indice di analfabetismo funzionale, men­tre è in coda alla classifica per dinamica della produttività e per investimenti nella ricerca.

Verso la metà degli anni Settanta del secolo scorso, la que­stione del ceto medio diventò centrale nel dibattito pubblico dopo la pubblicazione, nel 1974, del celebre “Saggio sulle classi sociali” di Paolo Sylos Labini. L’allievo di Joseph Schumpeter, mettendo in discussione un mantra della vulgata marxista, mostrava il peso crescente dei ceti medi (al plurale), soprattutto della piccola borghesia del settore agricolo, dell’artigianato e del commercio (i famigerati “topi nel formaggio”). E, pur rico­noscendone l’importanza, lo attribuiva soprattutto alle politi­che clientelari messe in campo dalla Dc.

Oggi la questione si ripropone in termini diversi. Perché il presunto declino del ceto medio -del suo status come dei suoi livelli di reddito- non si presta a facili semplificazioni giorna­listiche. L’attenzione, infatti, andrebbe rivolta più sull’allarga­mento della forbice tra il suo strato superiore e quello inferiore, ovvero sulle disuguaglianze create da questa divaricazione. Tendenza analizzata per primo da Charles Wright Mills nella sua monumentale ricerca sui “colletti bianchi” del 1951. In ve­rità, una classe media non è mai esistita. Infatti, la classe me­dia è un’insalata mista di occupazioni, una nebulosa che com­prende lavoratori indipendenti (come artigiani, piccoli e medi imprenditori) e dipendenti (come gli impiegati pubblici e pri­vati). Quando ci si vuol riferire a un insieme che supera e com­prende tali diversità, entra allora in gioco il termine ceto, che indica una vicinanza di tratti culturali, stili di vita, modelli di consumo, effetto anche di scelte politiche.

Ora, guardando ai dati sulla mobilità intergenerazionale in Italia, lo scenario resta sconfortante: nascere in una famiglia borghese significa avere la certezza di restare borghesi, mentre nascere in una famiglia operaia favorisce la permanenza negli strati sociali più bassi. Ciononostante, i fatti ci invitano a non cadere nel trabocchetto che colloca l’impoverimento relativo del ceto medio in scenari da Terzo mondo. Ma ci invitano an­che a non snobbare i rischi di inedite e drammatiche fratture nel mondo del lavoro. Sempre i fatti, ad esempio, ci dicono che il lavoro servile svolto dalle donne immigrate ha premesso alle donne italiane di emanciparsi, almeno parzialmente, senza però mutare l’assetto tradizionale della famiglia e del welfare. E ci dicono che i mestieri manuali meno qualificati si stanno sempre più etnicizzando, soprattutto al Nord. Si delinea così una situazione in cui i gradini inferiori della scala sociale sono segregati su base etnica. Purtroppo, è un problema che alla destra xenofoba interessa nulla, alla sinistra “inclusiva” poco.

La famigerata questione sociale, quindi, non riguarda solo il tasso di disuguaglianza, chi ha un basso salario, un impie­go precario ed è escluso o staziona ai margini della “città del lavoro”. Essa chiama in causa l’assetto complessivo del nostro welfare. Agli inizi degli anni Cinquanta, Thomas Marshall po­teva sostenere che nel welfare state in via di costruzione era implicita una tensione verso l’eguaglianza. Alla prova dei fatti, questo pronostico si è rivelato un abbaglio. Basti pensare al­l’incapacità, anche nelle versioni più interventiste dello Stato sociale, di estirpare le forme più dure e mortificanti di pover­tà come le stesse radici maschiliste dell’apparato dei diritti di cittadinanza. L’esperienza storica del welfare, in altri termini, porta ad affermare una tesi esattamente opposta a quella del sociologo inglese, che solo i moralisti accademici della sinistra possono ignorare, e cioè che libertà ed eguaglianza possono entrare in conflitto tra loro. Anche perché le protezioni sociali dipendono, in una misura che non ha confronto con i diritti civili e politici, dalle risorse create dal mercato. Sfidati dai cam­biamenti demografici, della famiglia e del lavoro, i sistemi di welfare sono sulla graticola dei governi da quando non è stato più possibile pagarli aumentando le tasse. Sono stati finanziati indebitandosi. E il debito, prima o poi, occorre restituirlo.

Purtroppo, la classe politica domestica è apparsa insensibile a questo monito. “Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere i piedi in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a cam­pare“, diceva Piero Calamandrei. “È meglio ti­rare a campare che tirare le cuoia”, rispondeva idealmente al­l’insigne giurista il “totus politicus” Giulio Andreotti. Tutti e due, seppure con intenti opposti, avevano colto acutamente uno dei tratti distintivi del nostro carattere nazionale. Per altro verso, era stato un conservatore disincantato come Giuseppe Prez­zolini, fondatore della Congregazione degli Apoti (cioè di “co­loro che non le bevono”), a sostenere che da noi non ci sono né antenati né posteri: ci sono solo contemporanei. Un “contemporaneismo” autoassolutorio, una sorta di liberatoria delle responsabilità avute nei confronti delle generazioni passate e delle responsabilità che si dovrebbero avere nei confronti delle generazioni future.

 

 

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