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Nicodemismo

Il nicodemismo e l’arte di tirare a campare

Il Bloc Notes di Michele Magno

“Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere i piedi in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campare” (Piero Calamandrei). “È meglio tirare a campare che tirare le cuoia”, rispondeva idealmente il totus politicus Giulio Andreotti a uno dei padri della Costituzione italiana. Entrambi, anche se con con intenti opposti, avevano colto acutamente uno dei tratti distintivi del nostro carattere nazionale. Per altro verso, era stato un conservatore disincantato come Giuseppe Prezzolini, fondatore della Congregazione degli Apoti (ovvero di “coloro che non le bevono”), a sostenere che nel Belpaese “non ci sono né antenati né posteri: ci sono solo contemporanei”.

Un “contemporaneismo” autoassolutorio, una sorta di “liberatoria” delle responsabilità avute nei confronti delle generazioni passate e di quelle che dovremmo avere nei confronti delle generazioni future. Figlio del longanesiano “tengo famiglia”, esso fu utilizzato nel secondo dopoguerra da molti intellettuali per giustificare, se non l’adesione, le proprie simpatie per il Ventennio. Una specie di “nicodemismo”, insomma, imposto da un regime autoritario che non lasciava alternative all’esercizio dell’arte della simulazione e dissimulazione. L’origine storica di questo termine, e del comportamento che designa, in estrema sintesi è la seguente.

Il 20 luglio 1542 fu istituita la nuova Inquisizione, con il compito principale di contrastare la diffusione dell’eresia protestante. Il Sant’Uffizio rivestì un ruolo fondamentale nella riorganizzazione della Chiesa di Roma, rispondendo alle esigenze di controllo, punizione, educazione del corpo sociale e di quello ecclesiastico. Erede dell’esperienza spagnola di verifica della reale conversione di islamici ed ebrei, l’Inquisizione si sforzava di far cadere la maschera con cui cercavano di nascondersi i nicodemiti italiani (il termine nicodemita, coniato da Calvino, deriva da Nicodemo, il fariseo che, secondo il Vangelo di Giovanni, di notte andava di nascosto ad ascoltare Gesù, mentre di giorno simulava una piena adesione alla sua setta). Di fronte alla durezza delle pratiche inquisitorie, i nicodemiti reagirono elaborando un singolare statuto etico, in cui simulazione e dissimulazione da potenziali vizi diventano autentiche virtù, imprescindibili per ogni uomo di corte e profondamente radicate nella virtù cardinale della prudenza.

Il caso più celebre e emblematico è quello di Torquato Accetto, un poeta e prosatore nato a Trani nel 1590 ma napoletano di adozione. Il suo nome è passato ai posteri, più che per le sue rime marineggianti, per un agile trattatello intitolato Della dissimulazione onesta, piccola gemma del “moralismo politico” e della psicologia barocca. Pubblicato nel 1641, questo pamphlet filosofico-politico fu riscoperto da quell’infaticabile e appassionato esploratore di vecchie carte che risponde al nome di Benedetto Croce. Come ha sottolineato lo storico Francesco Perfetti, il grande cantore di memorie napoletane lo ripropose in piena epoca fascista (1928), definendolo -sottilmente- un “saggio di psicologia prudenziale” di chi “sa di doversi muovere sulla terra, ma non dimentica il cielo”.

In effetti, con dotti e avvolgenti ragionamenti, Torquato Accetto suggeriva un modello di comportamento, che ben si addiceva al codice morale dell’uomo barocco, secondo il quale sarebbe stato non soltanto lecito, ma addirittura necessario, usando l’arte della pazienza, il dissimulare i propri pensieri e moti dell’animo per salvaguardare vita e libertà interiori da violenze e oppressioni provenienti dall’esterno (allora il Regno di Napoli era sotto il dominio spagnolo).

La dissimulazione onesta, insomma, non sarebbe stata affatto ipocrisia, ma virtù del saper vivere, la quale -rimanendo “in terra dove ha tutti i suoi negozi”- servirebbe a lenire come “un velo di tenebre” gli affanni umani, a sopraffare la caducità della vita e a riaffermare quanto “sia bella la verità”. Questo modello di comportamento, caricando “la verità” di una dimensione esoterica, ha però finito per ispirare la condotta, in tanti gravi momenti della nostra storia nazionale, di persone amanti del quieto vivere e di non pochi intellettuali e politici pavidi e amanti del quieto vivere, soprattutto preoccupati di salvaguardare i propri privilegi e le proprie rendite di posizione.

 

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