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Tunisia

Sfide e problemi di M5s, Lega e Pd sull’elezione del nuovo capo dello Stato

Si potrà eleggere il nuovo presidente della Repubblica andando contro i desiderata - sempre che vi siano - della più forte rappresentanza parlamentare ossia del Movimento 5 Stelle? Il punto di Gianfranco Polillo

 

Si potrà eleggere il nuovo Presidente della Repubblica andando contro i desiderata – sempre che vi siano – della più forte rappresentanza parlamentare? Secondo gli ultimi dati, i deputati che appartengono al Gruppo dei 5 stelle sono 158. I senatori 74. Insieme rappresenteranno circa il 25 per cento dei grandi elettori, che parteciperanno al rito laico, che porterà alla scelta del nuovo inquilino sul colle più alto di Roma. Nelle passate occasioni il partito di maggioranza relativa aveva sempre svolto una funzione propulsiva. Aveva avuto l’onere e l’onore di guidare le danze, fino a giungere al sospirato traguardo.

Nella Prima Repubblica era stata soprattutto la DC a svolgere una simile funzione, mediando tra le sue diverse componenti interne, ma anche attenta a non strafare. Nel suo modo inclusivo di fare politica, esisteva uno spazio incomprimibile che doveva essere garantito ai propri alleati. Ed ecco allora la regola dell’alternanza tra un laico ed un cattolico nella scelta dell’inquilino del Quirinale. Prassi, sempre seguita seppur con qualche eccezione, che si interruppe, e non fu un caso, nel 1992; quando, il cattolico, Oscar Luigi Scalfaro, succedette all’altro: Francesco Cossiga. Ma allora la Prima Repubblica era già morta per dar luogo a quell’incompiuta che sarà il bipolarismo all’italiana. Costretto a sopravvivere in un involucro costituzionale che, di fatto, lo negava. Rendendo impossibile ogni relativa coerenza.

Furono due laici i nuovi Presidenti della Repubblica. Prima Carlo Azeglio Ciampi, ex Governatore della Banca d’Italia. Un ruolo di tutto rispetto nel negoziare l’ingresso italiano nell’Europa dell’euro. Fu soprattutto Walter Veltroni a svolgere, con successo, il ruolo di sherpa. A Ciampi successe per ben due volte Giorgio Napolitano, grazie all’iniziativa, la prima volta, di Massimo D’Alema. Il suo secondo breve mandato – poco più di due anni prima delle dimissioni – fu invece conseguenza dell’impossibilità di poter giungere ad una candidatura alternativa e condivisa. Lo spettro che rischia di aggirarsi sulle prossime elezioni.

All’elezione di Sergio Mattarella si pervenne invece con un’improvvisa giravolta di Matteo Renzi, allora segretario del PD. Gli accordi con Silvio Berlusconi, per la verità, dopo la stagione del Nazareno, prevedevano altro. Nuovamente un laico. Fu invece eletto un cattolico, dopo averlo richiamato in servizio, facendogli lasciare le stanze dorate del Palazzo della Consulta. In tutti e tre i casi, comunque, fu il partito di maggioranza relativo a dare le carte, portando a casa il necessario risultato. Un successo che non si spiega solo con la forza dei numeri, ma con la capacità di interpretare politicamente la fase che il Paese, in quei momenti, stava vivendo e comportarsi di conseguenza.

Questo schema oggi non può più servire, a causa della crisi dei 5 stelle: epilogo di una vicenda ben più complessa. Un moto di protesta che nasce a seguito del fallimento delle vecchie politiche portate avanti da élite sopravvissute a sé stesse. L’idea di voler cambiare il mondo, per poi scoprire – come sempre é avvenuto – ch’era stato il mondo a sconfiggere velleità e propositi rivoluzionari. Ed infine la caduta verticale di quel consenso che solo un miracolo, spiegabile esclusivamente con il senno del poi, aveva loro garantito. Con la conseguenza di creare una frattura insanabile tra “Paese reale” e “Paese legale”, incidendo direttamente sulla stessa rappresentatività del Parlamento. Causa prima delle difficoltà del presente e di quelle future.

Se non esiste più una forza legittimata ad avanzare una proposta unitaria, in grado di imporsi, è necessario ricorrere ad un ruolo di supplenza. Che non potrà che essere esercitato dalle forze maggiori dei due schieramenti: la Lega da un lato, il PD dall’altro. Missione non facile, non solo a causa delle contrapposte posizioni politiche. Ma per il vincolo di coalizione che ancora le caratterizza. E che impedisce loro di guardare oltre i rispettivi confini. Esponendo entrambi al sistema dei veti incrociati, al peso delle legittime aspirazioni e dell’interesse dei singoli personaggi. Tutte cose giuste e sacrosanti, ma solo se non configgono con un più generale interesse. Che può essere tutelato solo rompendo la gabbia di quel vincolo, per spingersi oltre le colonne d’Ercole della passata congiuntura.

Ne saranno all’altezza? Risposta difficile. Il semplice calcolo delle probabilità porta ad una soluzione che già é a portata di mano. Ma che un sentimento mal riposto di rivincita rischia di far naufragare. Si riscopre all’improvviso, specie a sinistra, il primato della politica. La voglia di togliersi di torno quei tecnici che, ridando lustro all’Italia, ne hanno reso ancor più evidenti quei limiti intrinsechi, che solo una profonda rigenerazione può contribuire al loro superamento. Fossero queste le reali motivazioni, sarebbe la crisi finale e non l’inizio di una rigenerazione. Essere un Paese democratico non significa affidarsi ciecamente a delle oligarchie, in grado di sfruttare a proprio piacimento le tecniche del controllo politico. Significa promuovere una classe dirigente capace di essere all’altezza dei problemi da affrontare. E solo dio sa quanto essi siano complicati e, per alcuni versi, esiziali.

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