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Perché Mattarella sulla guerra non mi ha convinto

Nella situazione attuale credo che non si possa usare la parola "pace" senza accompagnarla (come ha sempre fatto Mattarella, ma non il 31 dicembre) dall’aggettivo "giusta". Una "pace giusta", però, può ottenersi soltanto attraverso la "vittoria" della ragione e del diritto. L'opinione di Cazzola.

Il saluto di fine anno del presidente Sergio Mattarella si è tradotto in un grande discorso, presentato (l’esposizione è sempre cruciale) con efficacia e corredato di una argomentazione di ampio raggio in generale condivisibile e apprezzabile; nella parte conclusiva persino commovente. Ma alcuni aspetti non mi hanno persuaso. Da come ha affrontato taluni temi si potrebbe persino pensare (Dio non voglia!) che il capo dello Stato abbia usato un approccio diverso dal solito.

Cominciamo dalle omissioni. A mio avviso Mattarella non avrebbe dovuto trascurare il tema dell’Europa. Alcuni commentatori hanno ritenuto che questo riserbo sia dipeso dalla scelta di non schierarsi in vista delle elezioni europee. Non si capirebbe il motivo di tale riserbo da parte di uno statista che, come Mattarella, non ha mai esitato ad assumere delle posizioni risolute e politicamente rischiose (fino alla minaccia dell’impeachment nel 2019) in difesa dell’unità europea e dell’euro quando questi valori venivano contestati dalla maggioranza scaturita dalle urne. Vi furono circostanze in cui Mattarella si oppose a certe derive, avvalendosi delle sue prerogative istituzionali, ma in grande solitudine, senza rinunciare, tuttavia, ad andare fino in fondo e a rovesciare, con il suo contributo determinante, le devianze con cui era iniziata la XVIII Legislatura.

Proprio perché le forze sovran-populiste – ringalluzzite da alcuni successi nelle consultazioni nazionali – si apprestano ad acquisire un peso maggiore nel nuovo Parlamento europeo, sarebbe stato opportuno – a mio avviso – sottolineare  il salto di qualità compiuto dalle istituzioni europee e l’esigenza di consolidarne i risultati.

Il presidente, poi, ha usato parole nette nei confronti dei responsabili dei conflitti aperti; ma non mi ha convinto quando ha affermato che “è indispensabile fare spazio alla cultura della pace. Alla mentalità di pace. Parlare di pace, oggi, non è astratto buonismo. Al contrario, è il più urgente e concreto esercizio di realismo, se si vuole cercare una via d’uscita a una crisi che può essere devastante per il futuro dell’umanità”. Ed ha aggiunto: “Per conseguire la pace non è sufficiente far tacere le armi. Costruirla significa, prima di tutto, educare alla pace. Coltivarne la cultura nel sentimento delle nuove generazioni. Nei gesti della vita di ogni giorno. Nel linguaggio che si adopera. Dipende, anche,  da ciascuno di noi. Pace, nel senso di vivere bene insieme. Rispettandosi, riconoscendo le ragioni dell’altro”.

Nella situazione attuale, credo che non si possa usare la parola “pace” senza accompagnarla (come ha sempre fatto Mattarella, ma non il 31 dicembre) dall’aggettivo “giusta”: una “pace giusta”, però, può ottenersi soltanto attraverso la “vittoria” della ragione e del diritto. Altrimenti il realismo rischia di confondersi con la resa ai più forti. Prima che alla pace, le giovani generazioni vanno educate alla religione della libertà; va spiegato loro che questo valore viene prima della giustizia e della stessa vita.

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