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Schlein Pd

Schlein costruirà un Pd socialdemocratico?

Schlein alla guida del Pd. Fatti, analisi e interrogativi. L’intervento di Paolo Rubino

L’esito delle elezioni dello scorso ottobre aveva finalmente svelato che gli interessi dei ceti deboli e sfavoriti da decenni di liberismo senza correttivi non erano più tutelati dal partito di sinistra, il Pd di questo primo ventennio del secolo. La maggioranza del voto operaio, dei pensionati senza privilegi, delle casalinghe, di piccoli commercianti e modeste partite IVA, dei redditi medio bassi e di coloro con modesto grado di istruzione, ad ottobre era andata a FDI e Lega. Il pensiero carismatico della Meloni, quello strutturato di Tremonti, l’organizzazione sul territorio della Lega hanno spostato il favore delle masse a destra, poiché è da questa parte che almeno le promesse suonano ben più seducenti per la maggioranza degli italiani. Salvo la riserva dei senza lavoro, soprattutto al Sud, sedotti invece dai 5 stelle.

Il Pd liberista, iniziato nel 1999 con la banca d’affari di palazzo Chigi, esaltato dalle lenzuolate di Bersani tra il 2006 e il 2008, raggiunto il climax con la Leopolda di Renzi e la sua presidenza del consiglio nel 2014 si è sbriciolato nei quattro anni dell’ultima legislatura quando il tardivo ripensamento dei D’Alema e dei Bersani, isolatisi in Art. 1, non ha frenato la deriva lasciando spazio e protagonismo al buffo Calenda, al dandy Fratoianni, ai cacicchi del Sud, ai maniaci dell’ecologismo alla Bonelli. Il gentile Enrico Letta, la cui sensibilità socialista si è formata nelle Grandes Ecoles francesi e non a Mirafiori, Secondigliano o Ballarò ha assistito il partito nella sua fase terminale senza riuscire a immaginarne un ruolo nella società nazionale contemporanea.

Le primarie dell’ultima settimana, senza un vero congresso in cui definire i sentieri alternativi del futuro prossimo e di lungo periodo, hanno messo il mondo della sinistra italiana di fronte ad una realtà storica di ispirazione tolstojana: il calcolo opportunistico dei circoli di partito su cui ha prevalso l’anima interiore del popolo. Elly Schlein ha vinto le primarie ed è diventata il nuovo segretario del Pd. Quali garanzie ora che il partito sappia riappropriarsi del consenso popolare? Della Schlein si sa poco se non che è persona colta, preparata, sensibile al rafforzamento dei diritti civili e della tutela ambientale. Ma nessuna di queste sue capacità è davvero utile a risvegliare gli italiani di Sesto San Giovanni, di Piombino, di Termini Imerese, di Melfi, Mestre, Pozzuoli, Gioia Tauro, del Sulcis dall’incantamento per gli slogan dei demagoghi. Tuttalpiù potrà consolidare il consenso di giovani, studenti e intellettuali delle grandi aree urbane del paese. Di fronte a sé la nuova guida del Pd ha una lunga strada da percorrere, ma prima di iniziare il cammino dovrebbe chiarire la sua visione del futuro.

Crede o non crede in un UE federale? E se sì, qual è allora il senso di un Unione sempre più allargata che diluisce la capacità politica per massimizzare soltanto la zona di libero commercio? Crede o non crede in una NATO per la mutua difesa degli associati? E se sì, qual è allora il senso di spostare le linee d’attacco dell’alleanza militare sempre più a Est a ridosso di Mosca? Crede o non crede che sia necessario ristabilire una maggior equità distributiva dopo oltre quarant’anni di laissez faire? E allora perché ricercare sempre il consenso di Confindustria per le proprie proposte di politica economica? Questa più che legittimamente persegue interessi di parte. La Politica ha il compito di comporli, non di affiancarli.

Crede o non crede che l’equità distributiva sia non solo una questione sincronica tra gli adulti di oggi, ma anche diacronica tra generazioni presenti e future? E allora che senso ha continuare a fare della defiscalizzazione degli oneri contributivi il proprio cavallo di battaglia in campo fiscale?

Crede o non crede che il portentoso incremento della produttività del lavoro reso possibile dal progresso tecnologico debba premiare anche i lavoratori dopo aver premiato soltanto, e forse troppo, il capitale? E allora qual è il senso di non prendere una posizione netta sul salario minimo, la settimana corta, il lavoro da remoto; tra le soluzioni che possono bilanciare l’incombente adozione dell’intelligenza artificiale nei processi produttivi. Crede o non crede che law and order siano gli strumenti dello Stato per difendere i deboli dai forti e non l’armamentario per violare i diritti, restringere le libertà e praticare la vendetta pubblica? E allora perché incaponirsi, come nel passato governo in misure semplicistiche, meramente repressive e punitive in campo penale e alleggerire al contrario la pressione della giustizia per i colletti bianchi?

Crede o non crede che l’immigrazione carsica dalle aree svantaggiate del pianeta sia un processo storicamente irreversibile? E allora perché fare del poliziotto Minniti il proprio campione in materia e non promuovere invece uno sforzo epocale perché l’Italia si ponga all’avanguardia nell’organizzazione dell’accoglienza, dell’inclusione e, in ultimo, della trasformazione dei nuovi arrivati in esemplari cittadini e non solo in campo sportivo professionistico. Insomma, può darsi che il Pd stia per uscire dal porto nebbioso dell’affarismo, spicciolo e grande, in cui è rimasto alla fonda per oltre vent’anni.

Un partito di sinistra, realmente socialdemocratico, è ciò di cui ha bisogno l’Italia ed ugualmente ne ha bisogno la destra attualmente di governo il cui vento in poppa rischia di afflosciarsi in assenza degli stimoli di un’opposizione forte, decisa e popolare.

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