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Tutte le falle nelle sanzioni contro la Russia. Report Ispi

Che cosa emerge da rapporto dell'Ispi sull'efficacia e l'impatto delle sanzioni contro la Russia per l'invasione dell'Ucraina. L'articolo di Marco Orioles

 

Le sanzioni occidentali stanno davvero facendo del male a Mosca? In che misura i provvedimenti presi da vari Paesi per colpire l’import-export della Russia, il comparto finanziario pubblico e privato e i famosi oligarchi stanno sortendo gli effetti sperati da chi li ha pianificati?

Le risposte le fornisce un fresco report del DataLab dell’Ispi, che fa il punto sui contraccolpi generati sull’economia russa dai vari pacchetti di sanzioni approvati a partire dal 23 febbraio da Paesi e istituzioni come Ue, G7, Usa, Canada, Regno Unito, Svizzera, Islanda, Giappone, Corea del Sud, Singapore, Australia e Nuova Zelanda (per formarsi un’idea sul numero, sull’entità e sugli obiettivi delle varie sanzioni si può dare un’occhiata alla tabella interattiva creata da Reuters; per un rapido giro d’orizzonte si possono consultare invece l’utile compendio reso disponibile dalla Bbc e il recente Dataroom di Milena Gabanelli e Simona Ravizza).

Ne emerge un quadro diversificato e poco coerente, con molti varchi grazie ai quali Mosca regge all’urto e anzi in molti casi la fa franca. Lo si capisce, d’altra parte, sin dal titolo dell’approfondimento dell’Ispi: “Tutti i ‘buchi’ delle sanzioni alla Russia”.

Chi colpisce la Russia e chi no

Un primo indicatore importante per valutare l’impatto delle misure anti Russia riguarda il numero dei Paesi che le ha imposte da rapportare a quello delle nazioni che non stanno facendo nulla.

Appartiene al primo insieme appena il 19% degli Stati del mondo. Può sembrare poco, ma è un dato fuorviante, perché quei Paesi – scrive Ispi – “rappresentano una grande fetta dell’economia mondiale (il 59%), e molti di loro costituiscono partner economici imprescindibili per Mosca”.

La prima falla nelle sanzioni anti Russia

Lo stesso dato tuttavia lascia comprendere la prima falla dell’apparato sanzionatorio: pur con la strada sbarrata a sei decimi dell’economia mondiale, Putin ha un altro 40% della torta, rappresentata dai mercati dell’81% dei Paesi di tutto il mondo, a cui rivolgersi per compensare le perdite. Si consideri che tra questi ci sono giganti come Cina e India.

In assenza di sanzioni secondarie, dunque, vi sono per il Cremlino ampie “possibilità di scappatoie e partite di giro”, con i prodotti russi che “pur colpiti, talvolta cambiano semplicemente acquirente. Ad esempio il greggio, che fino all’anno scorso era per circa la metà acquistato dall’Occidente (49% UE, 3% Stati Uniti), viene oggi almeno parzialmente dirottato verso India e Cina”.

Impatto minimo sull’export

Nonostante siano ad ampio raggio e colpiscano settori chiave come l’energia (bando totale da parte di Usa e Uk), la siderurgia, la chimica e le materie prime, Ispi stima che l’entità totale dei danni inflitti all’export russo non vada oltre il 7%.

Una goccia, insomma, nel mare dei 427 miliardi di dollari che prima della guerra la Russia incassava in un anno dalle sue relazioni commerciali con l’estero.

Se l’Ispi parla di un mero “graffio” che le sanzioni starebbero procurando a Mosca è per un motivo evidente: la metà del suo export è costituita da prodotti energetici e i provvedimenti occidentali sono, come è noto, parziali. Il gas, in particolare, continua a rappresentare una fonte vitale di introiti per il Cremlino, nonché un mercato da manipolare a piacimento.

Come sottolinea l’Ispi, “alla scarsità di sanzioni europee nel settore energetico corrispondono ingenti entrate per Mosca. Entrate che, grazie anche all’effetto guerra, sono addirittura aumentate rispetto a un anno fa. Se a marzo dell’anno scorso i ricavi della Russia derivanti dalle esportazioni di petrolio e gas non raggiungevano i 10 miliardi di euro, il mese scorso le entrate russe avevano superato i 15 miliardi”.

C’è da considerare inoltre, aggiunge l’Istituto diretto da Paolo Magri, che “alla Russia è stato sufficiente ridurre di un 20-25% le proprie forniture di gas naturale all’UE perché i prezzi a pronti schizzassero alle stelle, per assestarsi oggi a valori quintupli rispetto al periodo pre-crisi”.

Tutto ciò fa capire come siano poco più che bruscolini i 12 miliardi che verranno a mancare nelle casse russe a causa del bando totale sull’energia varato da Usa e Uk, e i 4,3 miliardi derivanti dall’embargo Ue sul carbone.

Finanza colpita con le sanzioni anti Russia

Le sanzioni più stringenti riguardano il settore finanziario. Non c’è solo l’esclusione delle principali banche russe dal sistema SWIFT. Come ricorda Ispi, “le sanzioni hanno anche congelato le riserve valutarie russe detenute all’estero, in quei Paesi che hanno imposto il divieto: Stati Uniti, membri UE, Regno Unito e Giappone. Si tratta di circa 350 miliardi di dollari, il 60% delle riserve totali”.

È questo dunque il pacchetto di sanzioni che ha nuociuto di più. Ora Mosca può contare solo sulle riserve dei Paesi non sanzionatori, in particolare yuan (83 miliardi di dollari di controvalore), mentre sono state appena bloccate le sue riserve in oro (133 miliardi).

Si tenga conto inoltre che, dall’inizio dell’invasione, la Banca Centrale russa (BCR) avrebbe visto ridursi le proprie riserve di 39 miliardi di dollari, pari al 6% del totale. Una situazione, dunque, che non può protrarsi indefinitamente.

Peraltro, a seguito del nuovo pacchetto di sanzioni varato dal Tesoro Usa il 5 aprile, dopo la scoperta dei massacri di Bucha, è venuta meno la deroga che aveva consentito a Mosca di continuare a utilizzare le proprie riserve per ripagare “interessi, dividendi o pagamenti” in connessione con debiti o azioni della CBR o del Ministero del Tesoro russo.

Grazie a questo meccanismo il Cremlino era riuscito a rispettare cinque scadenze di debito sovrano giunte a maturazione tra il 16 marzo e il 4 aprile, per un valore complessivo di quasi 3 miliardi di dollari.  Ora che questa “falla” è stata chiusa, si apre per la Russia lo scenario del default tecnico sin qui evitato.

Banche private in crisi

Drastiche misure hanno colpito il settore bancario privato. Non c’è solo l’esclusione dal sistema Swift, cruciale per le operazioni internazionali (sono escluse però Sberbank e Gazprombank, autorizzate ad incassare i pagamenti delle esportazioni di gas, petrolio, carbone per un flusso di quasi 1 miliardo di dollari al giorno), ma anche lo stop all’operatività di dieci banche russe che complessivamente rappresentano il 70% degli attivi del sistema bancario russo.

Come ha evidenziato anche il Dataroom pubblicato lunedì, le sanzioni danneggiano la stragrande maggioranza delle transazioni effettuate dalle banche russe in valuta estera, pari a circa 46 miliardi di dollari al giorno.

Import e settori strategici

Le sanzioni incidono anche sul fronte dell’import bloccandone circa il 12% su un totale di 247 miliardi di dollari. Il guaio maggiore deriva dal fatto che ad essere colpiti sono settori strategici come la tecnologia per uso civile e militare, le telecomunicazioni, l’elettronica e molti beni di consumo.

Come nota l’Ispi, in questo caso “l’obiettivo sarebbe triplice: colpire i settori più dipendenti dalle tecnologie occidentali (in particolare il settore energetico, in modo da degradarne la capacità di produzione futura), impedire l’importazione di tecnologie che abbiano possibili utilizzi militari o mettere pressione sugli oligarchi che sostengono il regime russo”.

Non è escluso peraltro, rileva ancora l’Istituto, che le importazioni possano ridursi in maniera autonoma, “come conseguenza della recessione economica attesa in Russia (-9% del PIL quest’anno), e dell’aumento della disoccupazione e dell’incertezza”.

Imprese private: chi se ne va e chi resta

Sebbene non abbiano alcun vincolo, molte imprese private hanno autonomamente deciso di lasciare la Russia. Sono quasi 500 sul totale delle 773 aziende censite dalla Yale School of Management: tra queste figurano colossi internazionali come Apple H&M, Ikea McDonald’s, Microsoft e Netflix e le quattro italiane Assicurazioni Generali, Eni, Ferragamo, Yoox.

Non tutte tuttavia hanno cessato completamente l’attività: “circa la metà – scrive Ispi – ha solo sospeso la produzione, tenendo dunque un piede in Russia in attesa di tempi migliori per riprendere le stesse attività a oggi messe in standby”. In questa categoria si distinguono le compagnie internazionali di container MSC, Maersk e CMA, e le italiane Ferrari, Iveco, Leonardo, Moncler e Prada.

Resta sul campo dunque più di un terzo del totale delle imprese che, annota l’Ispi,  “ha deciso di rimanere (17%), prendere tempo prima di una decisione (12%) o di ridurre soltanto la propria attività (8%)”.

A restare sono in 131: Acer, Auchan-Retail, Lenovo, e le 11 italiane Buzzi Unichem, Calzedonia, Campari, Cremonini Group, De Cecco, Delonghi, Geox, Intesa Sanpaolo, Menarini Group, UniCredit, Zegna Group.

Ad aver ridotto l’attività sono in 62, tra cui Enel, Ferrero e Pirelli. In 91 prendono tempo, come Barilla e Maire Tecnimont.

Un particolare interessante: “in questa classifica ‘negativa’, la Francia (68%) e l’Italia (64%) si trov(a)no sul podio con percentuali di ‘non disimpegno’ dalla Russia molto vicine a quelle cinesi, e nettamente più elevate rispetto a quelle tedesche (46%)”.

I beni degli oligarchi

Dove certamente Ue, Usa e Uk hanno voluto colpire più duro è tra i beni dei cosiddetti oligarchi. Ma le tre liste dei magnati cui congelare le proprietà e gli asset non coincidono: l’Ue ha stilato un elenco di 1.110 nomi, la Gran Bretagna di 989, gli Usa di 407.

Accadono così interessanti cortocircuiti: “Fra i 20 oligarchi e funzionari più ricchi della Russia”, scrive l’Ispi, “sanzionati da Ue e Regno Unito, ma non dagli Usa, ci sono l’industriale di fertilizzanti Andrey Igorevich Melnichenko, Roman Abramovich, il fondatore di Alfa-Bank Mikhail Fridman, il produttore di acciaio Viktor Rashnikov. Sanzionato invece da Usa e Uk, ma non dall’Ue, c’è il produttore di materie prime Victor Vekselberg”.

Inoltre, “nessuno dei tre ha sanzionato il presidente e principale azionista della società russa del gas Novatek Leonid Mikhelson, e il magnate dell’acciaio Vladimir Lisin. Nessuna sanzione neanche per il presidente del gigante petrolifero Lukoil Vagit Alekperov, considerato meno vicino a Putin del presidente di Rosneft Igor Sechin che mira a prendersi Lukoil per diventare il padrone assoluto del petrolio russo (sanzionato invece sia da Ue e Uk che dagli Usa). Fra gli intoccati c’è infine il magnate dei metalli Vladimir Potanin, considerato dagli Stati Uniti tra i 210 individui strettamente associati al presidente russo”.

Ma che le sanzioni occidentali risultino nel loro insieme poco efficaci lo si capisce ponendo da un lato i 29 miliardi di dollari di asset congelati dalla  Ue, e dall’altro il trilione di dollari che secondo l’Atlantic Council gli oligarchi hanno stivato nei paradisi fiscali.

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