Nonostante le critiche rivolte da molti osservatori alla campagna elettorale che ieri si è conclusa, il voto di oggi e domani ha una oggettiva valenza storica per l’Europa e per l’Italia. Al di là degli esiti, di cui peraltro già si conoscono alcune tendenze, esso segna comunque la conclusione della lunga fase che si è caratterizzata per uno stabile compromesso tra popolari e socialisti.
In particolare, la trascorsa legislatura ha consentito di verificare l’esaurimento delle politiche fortemente segnate dall’ecologismo come variabile indipendente e della illusione della “fine della storia” con la conseguente indifferenza verso la dislocazione delle filiere produttive. L’incarico affidato dalla Commissione in fine di mandato a Enrico Letta e Mario Draghi ha riproposto l’obiettivo prioritario della produttività e la necessità di una maggiore indipendenza dalle materie prime e da molti semilavorati provenienti da aree geopolitiche a rischio di restrizioni commerciali.
L’Unione ritroverà naturalmente le due direttrici fondamentali per la propria sicurezza e crescita, da un lato quella transatlantica e dall’altro quella con i Paesi mediorientali e africani liberi dalle influenze cinesi e russe. In questo contesto l’Italia trova oggettivamente una nuova centralità perché ferma nella sua alleanza occidentale e aperta, attraverso il Piano Mattei, al risveglio del continente con il quale confiniamo.
Il baricentro europeo si sposta inevitabilmente verso sud, dal Baltico al Mediterraneo. Nella stessa costruzione delle alleanze politiche, rese faticose dall’impianto istituzionale dell’Unione, potrebbe toccare al nostro Paese un ruolo di tessitura paziente tra Paesi e tra aree politiche. La evoluzione verso l’alto delle grandi funzioni della “spada” e della “feluca”, oltre a quella già realizzata della moneta, potrebbe accompagnarsi con la devoluzione agli Stati membri della gran parte delle materie “minori” sulle quali le Commissioni del passato si sono tanto esercitate. Si apre insomma una fase nuova nella quale potremmo anche esportare quella “eccezione italiana” di cui parlava Giovanni Paolo secondo e consistente in una idea di modernità che non può prescindere dalla consapevolezza delle comuni radici greco-giudaico-cristiane.
Maurizio Sacconi