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L’Occidente non deve abbandonare l’Ucraina: il ruolo dell’industria della difesa

Occorre convincere l’industria della difesa a investire nell'aumento della produzione, garantendole commesse adeguate per un periodo di tempo sufficiente all'Ucraina. L'analisi del generale Carlo Jean

Con l’industrializzazione, la potenza militare è dipesa in misura sempre più rilevante dalla capacità dell’industria bellica. La predisposizione della sua mobilitazione è divenuta un elemento essenziale per ogni Stato, in modo da fornire nei tempi previsti dalla sua strategia gli armamenti e il munizionamento necessari.

Dopo la 1° guerra mondiale, molto intensa fu la discussione sulla logica da adottare per la mobilitazione industriale. Era connessa con il fatto che le tecnologie e i sistemi di produzione militari erano molto simili a quelli civili. Si trattava di riconvertire le industrie dalle produzioni commerciali a quelle militari. Gli Stati che prevedevano di concludere rapidamente i conflitti dovevano dare priorità ai tempi della riconversione. Quelli potenzialmente più potenti attribuivano maggiore importanza all’entità della produzione bellica a riconversione avvenuta. La discussione verteva sulla priorità da dare al tornio, più rapidamente convertibile, oppure alla catena di montaggio, più lenta nel mobilitarsi, ma capace di produzioni di maggiore entità. La prima soluzione fu adottata dalla Germania, i cui tempi di completa mobilitazione dell’industria bellica si aggiravano su un anno; la seconda dagli USA, che completarono la loro mobilitazione solo nel 1944.

Oggi le cose sono mutate per la complessità assunta dai moderni sistemi d’arma, la cui produzione richiede la disponibilità di industrie specializzate, anche se parte dei loro componenti sono acquisibili on the shelf, cioè sono identici a quelli impiegati anche per i prodotti commerciali. Con la fine della guerra fredda e con la diffusione in Occidente della convinzione che fosse finita l’era delle grandi guerre fra le maggiori potenze, l’Occidente ha ridimensionato drasticamente le sue capacità di produzione di armamenti e di munizionamento. Ha limitato anche l’entità delle proprie scorte, per non immobilizzare capitali che, rapidamente, divengono obsoleti, dato l’accelerato progresso tecnologico. È stata data priorità alla qualità rispetto alla quantità, limitando quest’ultima alle ridotte esigenze della guerra anti-terrorismo o di operazioni militari limitate come quella in Iraq. Il ridimensionamento dell’industria bellica, soprattutto di munizionamento molto sofisticato – come i missili controcarro Javelin, quelli controaerei Stinger, i missili per lanciarazzi multipli HIMARS, ecc. – è stato superiore addirittura a quello delle forze terrestri: quelle NATO in Europa si sono ridotte a circa un terzo di quelle esistenti durante il confronto bipolare con il Patto di Varsavia.

Con l’aggressione russa in Ucraina e con la decisione della coalizione a guida statunitense di sostenere la resistenza di quest’ultima, è avvenuto quanto non era stato previsto dai pianificatori occidentali. Il consumo di munizioni è quello di una guerra ad alta intensità. In due giorni dei più aspri combattimenti nel Donbass viene sparato un numero di proiettili di artiglieria pari a quelli che una media potenza NATO, come l’Italia, ha nelle intere sue scorte. Quasi tutti i paesi che forniscono armi all’Ucraina sono giunti al limite di intaccare le loro quantità considerate intangibili per le proprie esigenze di sicurezza. Molti hanno dirottato sull’Ucraina materiali destinati all’esportazione, ad esempio per gli USA missili per HIMARS a Taiwan e pezzi d’artiglieria CAESAR da parte della Francia alla Danimarca.

Certamente nella Conferenza di Parigi (detta di pace, ma in realtà dei donatori) del 13 dicembre il problema verrà trattato. Non ritengo probabile che la continuazione della pratica attuale, consenta all’Ucraina di disporre del munizionamento, soprattutto di quello avanzato, che possa metterla in condizioni di aver la meglio delle prossime offensive russe. Poco importa se anche questi ultimi conoscono notevoli difficoltà nel fornire le loro forze con munizionamenti sofisticati, dato che la loro industria degli armamenti dipende dalla componentistica elettronica che le veniva fornita dall’Occidente. I missili per i sistemi Iskander incominciano a scarseggiare, così come le bombe guidate per aerei. Ma la Russia dispone degli enormi stock di munizionamento ereditati dall’URSS e, con la quantità, è in condizioni di compensare la diminuzione della qualità del suo munizionamento e dei suoi sistemi d’arma.

Occorre convincere l’industria ad effettuare i consistenti investimenti necessari per aumentare la produzione, oltre le misure già adottate, quale quella di prevedere il funzionamento continuo degli impianti, con l’aumento dei turni di lavoro. Ma per convincerla, in economie d libero mercato, occorre garantirle adeguate commesse per un tempo sufficiente. Ciò aumenterà il costo del sostegno militare all’Ucraina e, quindi, le possibilità di contrasti fra gli USA – che hanno fornito armi per una sessantina di miliardi di dollari – e gli europei, i cui aiuti non superano la metà di quella cifra.

Le uniche alternative teoricamente possibili sarebbero quelle d’intaccare le scorte essenziali oppure che gli USA decidessero di superare la linea rossa che si sono autoimposta: quella di evitare di fornire all’Ucraina sistemi particolarmente sofisticati, in grado di colpire le basi in profondità nel territorio russo, come missili HIMARS o ATCMS con gittata di 300 km, o per il combattimento di contatto, come i carri Abrams e gli elicotteri Grey Eagles, finora negati all’Ucraina per il timore che provocassero una escalation del conflitto e un coinvolgimento diretto degli USA.

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