skip to Main Content

Rileggendo “La vita degli uomini infami” di Michel Foucault

Il Bloc Notes di Michele Magno

“Questo non è un libro di storia. […] È un’antologia di esistenze”: così recita l’incipit fulminante di un volumetto di Michel Foucault, “La vita degli uomini infami” (il Mulino). Apparso nel 1977, racconta appunto quelle esistenze che non hanno lasciato traccia se non nei registri d’internamento della polizia, nelle suppliche al re e nelle “lettres de cachet” con cui il sovrano infliggeva punizioni al di fuori delle normali procedure giudiziarie.

I documenti passati al setaccio dal filosofo francese coprono l’arco di un secolo (1660-1760). In essi si rispecchia un mondo di sventura e di rabbia, di disagio e di malvagità, in cui Foucault scorge la paradossale presenza dello straordinario nell’ordinario, di qualcosa che somiglia al sublime settecentesco di Edmund Burke o di Kant, che suscita cioè un “certo effetto mistodi bellezza e di spavento”.

A chi sa leggerle, queste vite di uomini infami, ossia non solo oscuri, privi di fama, ma malfamati, rivelano una certa sinistra grandezza. Sono echi di voci spente e di ribellioni stroncate, devianze di individui ignoti, indagati e condannati su segnalazioni di parenti e preti, o sulla base di delazioni anonime.

Come suggerisce Remo Bodei nel suo saggio in appendice al testo, il pamphlet di Foucault va letto all’interno della costellazione di interessi degli anni Settanta del Novecento, che comprende la “microfisica del potere”, le dinamiche dell’esclusione sociale, la nascita del sistema carcerario moderno e lo studio dell’ossessione che si concentra sul delinquente in quanto “mostro”, da cui la società si deve difendere con ogni mezzo.

Se nell’Ottocento la sua pericolosità verrà analizzata dalla medicina, nel periodo qui considerato veniva direttamente generato dal discorso del potere politico o dalle reazioni sproporzionate delle autorità detentrici del monopolio della forza. Il crimine non violava, infatti, solo la legge, ma “colpiva i diritti, la volontà del sovrano, presenti nella legge; di conseguenza attaccava il corpo del sovrano fisicamente inteso […]. Nella punizione del crimine si assisteva alla ricostituzione rituale e regolata dell’integrità del potere”.

Come sottolinea Bodei, la novità di questo approccio alla “vita degli uomini infami” sta nel fatto che gli apparati polizieschi e giudiziari riprendono il modello cristiano della confessione. Lo stravolgono, ma sono in grado di renderlo utile alle loro procedure repressive. A differenza della confessione cristiana, dove il pentimento cancella i peccati, le colpe non vengono più condonate, e al segreto del sacramento si sostituisce il registro in cui viene annotato l’interrogatorio del reo confesso (spesso grazie alla pratica della tortura).

Ma, alla fine, cos’è il potere per Foucault? Antonio Masala ha messo in rilievo le singolari convergenze tra uno dei numi tutelari della gauche francese e Bruno Leoni, un liberale con tendenze libertarie ante litteramcome (“Riflessioni sul potere. Un confronto tra Bruno Leoni e Michael Foucault”, in “Le ragioni della libertà”, a cura di R.A. Modugno, Rubbettino, 2014).

Entrambi, in effetti, considerano il potere come una rete di relazioni tra individui diffusa in tutto il corpo sociale. E per entrambi il problema dello Stato va analizzato a partire dalla struttura delle relazioni umane, dalla “microfisica del potere”, e non da una sovranità che proviene dall’alto. Il capolavoro di Leoni, “Freedom and the Law” (“La libertà e la legge”, Liberilibri, 1995, pubblicato in inglese nel 1961), è un aspro atto d’accusa contro il positivismo giuridico, contro ogni concezione del potere inteso come strumento di dominio e non di cooperazione tra individui diversi.

La critica di Foucault al formalismo giuridico, che irrigidisce il potere in “un fenomeno di dominazione compatto e omogeneo”, si muove nello stesso solco. Per il grande storico della follia, del crimine, della sessualità, era necessario sbarazzarsi del “modello del Leviatano”: “Le relazioni di potere sono sia quelle che gli apparati dello stato esercitano sugli individui, sia quelle che esercita il padre di famiglia sulla moglie e sui figli, il potere che esercita il medico, il potere che esercita il notabile […] Non c’è dunque una fonte unica dalla quale scaturirebbero come per emanazione tutte queste relazioni di potere […]” (“Il potere, una bestia magnifica”, ora in “Biopolitica e liberalismo”, Medusa, 2001).

Back To Top