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Rileggendo “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa

Il Bloc Notes di Michele Magno

Storicamente, il termine trasformismo entra nel linguaggio politico italiano negli ultimi decenni dell’Ottocento. In un discorso tenuto a Stradella alla vigilia delle prime elezioni a suffragio allargato (8 ottobre 1882), il capo della sinistra parlamentare Agostino Depretis giustificava così gli accordi stipulati con la destra moderata di Marco Minghetti: “Se qualcheduno vuole entrare nelle nostre file, se vuole accettare il mio modesto programma, se vuole trasformarsi e diventare progressista, come posso io respingerlo?”.

Il termine divenne immediatamente sinonimo di mancanza di principi, di amoralità, di corruttela. Già nel gennaio 1883, in un articolo apparso sul periodico bolognese “Don Chisciotte”, Giosuè Carducci ne anticipava una condanna che sarà senza appello: “Brutta parola a cosa più brutta. Trasformarsi da sinistri a destri senza però diventare destri e non però rimanendo sinistri. Come nel cerchio dantesco de’ ladri, non essere più uomini e non essere più ancora serpenti; ma rettili sì, e rettili mostruosi nei quali le due immagini si perdono, e che invece di parlare ragionando sputano mal digerendo”. In seguito la “brutta parola” fu utilizzata per designare addirittura un topos del carattere nazionale, vale a dite l’inclinazione -figlia dell’atavica arte di arrangiarsi italica- a non prendere troppo sul serio le fedi e le ideologie.

Toccò a un conservatore come Giuseppe Tomasi di Lampedusa rimettere il dito sulla piaga nel 1958, quando fu pubblicato “Il Gattopardo”. Nel romanzo viene messa in bocca a Tancredi, il nipote del principe di Salina, la massima degna di un penetrante e misconosciuto trattato di politologia: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”. La proposizione, che si rivela attentissima alla realtà effettuale del 1860, nella Sicilia conquistata dai Mille, è sembrata così efficace -insieme riassuntiva e anticipatrice di tanti discussi momenti della storia nazionale- da stabilire la fortuna del la parola gattopardo e del derivato gattopardismo, ossia dell’arte della simulazione e della dissimulazione.

Si può aggiungere che, se il principe di Machiavelli, piegandosi alle risorse di un pessimismo radicale, si proponeva fini nobili e di interesse collettivo, il gattopardo finge di accettare innovazioni più apparenti che reali per non compromettere i privilegi acquisiti, per perseguire cioè il proprio tornaconto personale.

Tornando all’opera di Tomasi di Lampedusa, non si tratta soltanto dell’alleanza che si stringe in Sicilia tra aristocrazia e borghesia per passare indenni attraverso la “rivoluzione” repubblicana e garibaldina; ma -come ha scritto Lorenzo Mondo (in “L’identità degli italiani”, Laterza, 1998)- di una più generale tendenza alla mediazione e all’accomodamento, che secondo il principe di Salina è un carattere costitutivo degli italiani, della loro fisionomia morale.

Un esempio di gattopardismo in presa diretta lo troviamo nel racconto del plebiscito per l’annessione nel feudo di Donnafugata: le elezioni truccate, uccidendo la buonafede e corrompendo i cittadini chiamati per la prima volta a esprimersi in libertà, “presiedono funestamente alla nascita della nuova Italia e al lungo avvilimento del Mezzogiorno”.

Dai segnali che ci rimandano alla crisi odierna della politica e delle istituzioni democratiche, in giorni in cui la buona novella del cambiamento viene spesso servita sul piatto freddo della menzogna e della demagogia, la “bestia leggera e presta molto” -come la lonza dantesca che scatta felinamente alle origini della nostra cultura (ma là era simbolo della lussuria)- è forse destinata ad accompagnarci ancora a lungo.

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