Nel condividere pienamente il commento di Daniele Zaccaria all’uso sconcertante della corrispondenza elettronica e privata, chiamiamola così, fra Tiziano Renzi e il figlio Matteo, che forse non l’ha neppure ricevuta, allo scopo di portare acqua al mulino del rinvio a giudizio chiesto contro l’ex presidente del Consiglio per il presunto finanziamento illegale dell’altrettanto presunto partito travestito da fondazione, mi permetto di segnalare il sorpasso che i magistrati d’accusa di Firenze sono riusciti a compiere sui colleghi di Milano. Che pure mi sembravano a loro modo insuperabili nel perseguimento dei loro obiettivi processuali dai lontani, ormai trentennali tempi di “Mani pulite”. Quando uno vince un derby bisogna pur riconoscerglielo.
Zaccaria ha giustamente ricordato l’incitamento addirittura alla prostituzione minorile addebitato a Silvio Berlusconi, che non è riuscito paradossalmente a chiudere la partita neppure con l’assoluzione definitiva, dopo una condanna in primo grado costata peraltro un bel po’ di processi ai giornalisti permessisi di criticarla con una certa preveggenza, visto l’esito giudiziario in appello e in Cassazione. Ne feci le spese anch’io per un articolo sul Tempo, trovando per fortuna un giudice non a Berlino ma nella più vicina e domestica Brescia.
Ebbene, in quel rodeo sessuale, sentimentale, stilistico e quant’altro che fu il processo contro Berlusconi per prostituzione minorile non saltò in mente ai magistrati d’accusa – se non ricordo male – l’idea di usare contro l’imputato eccellente la corrispondenza, intesa in senso ampio, intercorsa pur pubblicamente fra l’allora presidente del Consiglio e la moglie Veronica, ben prima che le loro liti più o meno di gelosia sfociassero nel divorzio.
La signora aveva scritto nel 2009 addirittura ad un giornale – e che giornale, trattandosi di Repubblica, la corazzata della flotta stampata ogni giorno contro Berlusconi – per mettere alla berlina il marito che corteggiava quasi ogni donna gli venisse a tiro rammaricandosi di non poterla sposare, ma evidentemente smanioso di fare qualcosa che assomigliasse ad un matrimonio.
In un’altra circostanza, passando dalla corazzata a qualche altro mezzo meno imponente ma più veloce, come la maggiore agenzia nazionale di stampa, la signora aveva promosso Berlusconi a “imperatore” per descriverne l’approccio ai cortigiani di ogni genere. E, avendo lo sprovveduto appena partecipato alla festa di compleanno di una diciottenne nei pressi di Napoli, con uso o abuso di scorta e simili, la signora gli contestò la diserzione di analoghe feste dei figlioli.
Persino le candidature parlamentari gestite dal marito come capo indiscusso del suo partito, per non parlare della coalizione di centrodestra presa nel suo insieme, erano entrate sotto la lente di osservazione della moglie dell’allora presidente del Consiglio liquidando la selezione come “ciarpame”.
Il povero Matteo Renzi – povero, si fa per dire, visti anche i suoi emolumenti come conferenziere, e non solo le sue indennità parlamentari – si può considerare persino fortunato nel vedere usati contro di lui gli sfoghi di un padre anziano e insofferente delle frequentazioni, del carattere, delle abitudini e non so cos’altro del figliolo. E fortunato anche di avere per moglie una santa donna che non smanetta computer o simili e riesce, magari, a trattenere per sé sgarbi o quant’altro può capitare a qualsiasi donna di subire dal marito o dal fidanzato.
Del padre di Renzi risultato così utile agli avversari giudiziari, politici e mediatici del figlio vorrei infine segnalare l’ingratitudine riservatagli da chi ora lo sfrutta con titoloni e battutacce, essendo evidentemente rimasto l’orso o il mostro di sempre. Bastava dare ieri un’occhiata alla vignetta riservatagli sulla prima pagina del Fatto – e dove, sennò? – in cui gli hanno tolto pure un piede per dargli del “vecchio gambadilegno”: tutta una parola, vi raccomando, da letteratura di dileggio.