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Quando sui social network il comico diventa il tragico visto di spalle

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nel film di Patrice Leconte “Ridicule” (1996), ambientato nella Francia del 1780, il protagonista, marchese de Malavoy, si fa largo alla corte di Luigi XVI a colpi di motti di spirito, ossia mettendo in ridicolo i suoi rivali. Il suo scopo è avvicinare il re per proporgli un importante progetto umanitario di bonifica, che avrebbe posto al riparo dalla malaria le popolazioni del suo feudo. Ma proprio quando sta per raggiungere l’obiettivo cade vittima di un tiro mancino: letteralmente di uno sgambetto che lo fa ruzzolare a terra durante un ballo di corte, rendendolo ridicolo e precludendogli definitivamente l’accesso all’attenzione e ai favori del monarca.

Di fronte alle risate dei cortigiani, il marchese li accusa invano di insensibilità morale nei confronti delle sorti degli uomini e delle donne che la mancata bonifica delle paludi condannerà alla malattia e alla morte. Essi, infatti, hanno davanti agli occhi solo la sua goffaggine e non lo ascoltano neppure. In altre parole, il ridicolo esclude ogni condivisione emotiva delle disgrazie altrui.

Come ribadisce Henri Bergson due millenni e mezzo dopo Aristotele, “il comico esige, per produrre tutto il suo effetto, qualcosa che somigli a un’anestesia momentanea del cuore” (“Il riso. Saggio sul significato del comico”, Mondadori, 1992). Ora, se esaminiamo quella forma breve del discorso comico che si traduce nella battuta fulminante della barzelletta, è possibile, a partire da suo bersaglio manifesto, ricostruire la carta d’identità di un popolo, di un gruppo politico, di una classe sociale, colti in un determinato momento della loro storia. Razzismo, sessismo, antisemitismo e ogni genere di pregiudizi e di luoghi comuni (gli “idola fori” di Bacone) si cristallizzano, circolando, “in odiosa moneta spicciola, grazie alla capillare comunicazione orale della barzelletta” (Andrea Tagliapietra, “Non ci resta che ridere”, il Mulino, 2013).

Ebbene, il genere narrativo dominante sui social network non è forse quello della derisione dell’avversario politico, termine che designa la trasformazione della spontaneità del riso nel gesto intenzionale di chi ride per far male e ferire profondamente la vittima del suo dileggio? In questo senso, si può ben dire che il comico altro non è che il tragico visto di spalle. Del resto, si tramanda che gli spartani avessero eretto il santuario di Ghélos, dio del riso, proprio a fianco di quelli di Terrore e Morte.

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