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Quando lavoro e cultura vanno d’accordo

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Sabato scorso il quotidiano ItaliaOggi ha pubblicato un articolo, firmato da Gaetano Costa, che vale la pena di segnalare. Racconta l’originale iniziativa ideata da Danilo Dadda, amministratore delegato di Vanoncini, azienda leader nel settore dell’edilizia sostenibile con sede a Mapello, in provincia di Bergamo. Si chiama Book club e funziona così: un lavoratore può scegliere un romanzo o un saggio a piacere. Dopo averlo letto, prepara una scheda e la presenta ai colleghi nel corso di due incontri mensili. A ogni presentazione gli viene riconosciuto un buono-acquisto del valore di cento euro, che raddoppia e triplica alla seconda e terza presentazione. Se viene esposta in inglese, poi, il bonus è ancora più alto. L’iniziativa ha riscosso un forte consenso tra i dipendenti, dimostrando che mattoni e letteratura e, più in generale, lavoro e cultura possono benissimo andare d’accordo.

Non andavano certamente d’accordo, invece, all’inizio dell’Ottocento. Basti solo pensare al “Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere” che circolava in Francia nei primi mesi del 1801, una specie di repertorio dei pericoli che la lettura rappresentava per gli “angeli del focolare”. Un testo grottesco, e tuttavia fedele interprete del senso comune dell’epoca. Dopo un’ampia casistica dei danni prodotti, nella vita pubblica e domestica, dalle donne che sanno leggere, seguivano gli articoli della legge, fra cui ne spicca uno che recitava: “La Ragione vuole che i mariti siano gli unici libri delle loro mogli, libri viventi, ove giorno e notte esse imparino a leggere il proprio destino”. Paradossalmente, l’estensore della proposta, Sylvain Maréchal, aveva contribuito, con Babeuf, Buonarroti e Darthé, alla redazione del “Manifesto degli uguali” (1796) in cui si proclamava la necessità di una radicale uguaglianza sociale. Ma evidentemente le donne non avevano ancora diritto di farne parte.

Di avviso completamente diverso era invece uno dei protagonisti dell’Inghilterra vittoriana. Il 6 dicembre 1864 John Ruskin, un esteta affascinato dai preraffaelliti inglesi e disgustato dalle miserie della società industriale, tiene una conferenza alla Rusholme Town Hall, presso Manchester. Di fronte ai genitori che gli chiedono quale educazione sia più utile dare ai figli, egli rivendica il valore autonomo dell’istruzione. Perché solo l’istruzione realizza uno spazio utopico di eguaglianza, dove le gerarchie sociali si possono invertire. Nasce da qui l’appello a una politica che sostituisca le armi con i libri. Una settimana dopo, sempre a Manchester, Ruskin tiene una seconda conferenza. Al centro c’è proprio il ruolo della donna e l’idea che, grazie alla lettura, essa può conquistare un “potere regale”.

Il critico d’arte britannico troverà un ammiratore e un traduttore d’eccezione in Marcel Proust. Nel 1900, alla morte di Ruskin, gli dedica due necrologi; tra il 1904 e il 1906 traduce i due discorsi manchesteriani. Nell’introduzione al primo (Sesamo. I tesori del re), respinge la concezione utilitaristica e pedagogica -lì teorizzata- della lettura come dialogo con libri-amici. Infatti, questa concezione è per lui in conflitto con “quel meraviglioso miracolo della lettura che è la comunicazione nel cuore della solitudine”.

Ciononostante, dopo aver criticato il paragone fra il libro e l’amico, Proust lo riprende e lo sviluppa a modo suo: “Probabilmente l’amicizia, l’amicizia verso gli individui, è cosa frivola; e la lettura è una forma di amicizia. Ma almeno è un’amicizia sincera, e il fatto che si rivolga a un morto, a un assente, le dà qualcosa di disinteressato, quasi di toccante […]. Nella lettura, l’amicizia è subito riportata alla sua primitiva purezza. Verso i libri, nessuna cortesia. Con questo genere di amici, se passiamo la serata insieme, è perché ne abbiamo davvero voglia. Sul serio, il più delle volte, li lasciamo solo a malincuore […]. Tutte le inquietudini dell’amicizia vengono meno sulla soglia di quell’amicizia pura e serena che è la lettura”.

Il tema cruciale del silenzio viene quindi riproposto in una originale versione del rapporto con il libro-amico, che deve garantire il massimo di trasparenza e di libertà: “L’atmosfera di questa pura amicizia è il silenzio, più puro della parola. Infatti si parla per gli altri, ma si tace con se stessi. Inoltre nel silenzio non c’è traccia, come nella parola, dei nostri difetti, delle nostre moine […]. Lo stesso linguaggio del libro è puro (se il libro merita questo nome), reso trasparente dal pensiero dell’autore che l’ha emendato da tutto ciò che non coincideva con esso, fino a farne la sua immagine fedele”. Secondo Proust, quindi, il libro è una specie di “specchio dell’anima”; e la lettura è un’esperienza del tutto intima e personale, un cammino in cui, incontrando l’altro, si riconosce -e si modifica- il proprio io. Un percorso ai limiti del tempo e dello spazio, là dove si delineano infiniti mondi virtuali e la realtà si apre all’orizzonte del possibile.

Del resto, fin dall’antichità esiste però un farmaco efficace contro l’ansia o, meglio, contro il tumulto delle passioni che ci assale e rischia di travolgerci nelle ore più buie della nostra esistenza. Non è certamente l’unico e non garantisce prodigiose guarigioni, ma, diversamente dagli antidepressivi, non causa danni collaterali: è la lettura, appunto, di un buon libro.

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