Domani, per l’Iran, scatta l’ora X. È il giorno delle sanzioni americane, pensate dall’amministrazione Trump per mettere in ginocchio l’economia della Repubblica Islamica e costringerla così al tavolo negoziale.
Colpendo le esportazioni petrolifere, il settore bancario, quello dei trasporti, la cantieristica e altri ambiti dell’economia iraniana, le nuove sanzioni elevate da Washington mirano ad indurre Teheran ad accettare un nuovo accordo sul nucleare, più stringente rispetto a quello siglato nel 2015 (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA), e a modificare una politica estera e militare che, agli occhi degli Stati Uniti e dei suoi alleati della regione, appare funzionale ad un disegno egemonico che punta a imporre in Medio Oriente un ordine “sciita” contrapposto a quello sunnita che promana dall’Arabia Saudita. Un guanto di sfida ed un braccio di ferro che passa attraverso un embargo con il quale piegare la resistenza iraniana e, secondo l’interpretazione di molti, creare le condizioni favorevoli ad un cambio di regime a Teheran.
Ma quali conseguenze avranno le sanzioni americane sui mercati mondiali? Nel dossier diffuso questo fine settimana, l’Ispi di Milano prevede un aumento del prezzo del petrolio dovuto al venir meno dell’offerta di Teheran che potrebbe non essere compensato dalla maggiore disponibilità di altri produttori OPEC e non OPEC come Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Russia. Uno “shock” per prevenire il quale l’amministrazione Trump mette in campo delle temporanee esenzioni per otto paesi che importano petrolio dall’Iran. La lista sarà resa nota solo domani, ma già si ipotizza l’inclusione di India, Cina, Giappone, Corea del Sud, Turchia e Italia, Paesi che sono da tempo in trattative con il Tesoro Usa per strappare una deroga dal dispositivo delle sanzioni. L’obiettivo dell’export zero dall’Iran proclamato dall’amministrazione Trump è dunque rinviato ai prossimi mesi, in nome di una flessibilità necessaria ad evitare sconvolgimenti in un mercato energetico reso scintillante dall’ingente domanda mondiale.
Sottolineato ripetutamente dai falchi dell’amministrazione Trump, il segretario di Stato Mike Pompeo e il consigliere per la Sicurezza Nazionale John Bolton, l’obiettivo export zero si materializzerà dunque con tutta probabilità a metà 2019. Nessuno sottovaluta la determinazione del governo a stelle e strisce e del suo capo, che nel weekend ha diffuso dal suo account Twitter un meme con una sua foto stilizzata e la scritta, inequivocabile, “Sanctions are coming November 5”. L’Ispi prevede una contrazione dell’export di Teheran di quasi due milioni di barili al giorno, un livello ben superiore rispetto a quello raggiunto all’epoca (2012-2015) della prima crisi nucleare e delle sanzioni della comunità internazionale sponsorizzate da Barack Obama, quando l’export iraniano si ridusse di un milione e duecentomila barili. Numeri che chiariscono l’intenzione di Washington di mettere l’Iran con le spalle al muro.
L’Europa assiste alla prova di forza di Washington con rammarico e fastidio. I paesi del Vecchio Continente si sono dissociati dall’iniziativa americana, denunciando l’irresponsabilità di Washington nell’uscire da un accordo sul nucleare che stava funzionando, a detta di tutti gli osservatori internazionali tra cui l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, chiamata a sorvegliare sul rispetto dei termini del JCPOA da parte di Teheran. Dinanzi alla volontà Usa di tirare diritto, l’Europa cerca di divincolarsi, annunciando la messa in campo di strumenti che dovrebbero consentire alle aziende europee che sono in affari con Teheran di aggirare le sanzioni americane e mantenere in essere i rapporti economici e commerciali con la Repubblica Islamica.
Il pacchetto europeo è ben spiegato nel dossier Ispi, che ricorda l’approvazione ad agosto del “Regolamento di blocco (Regolamento 2271/96), che impedisce ai soggetti europei di adeguarsi alle sanzioni secondarie statunitensi, e l’estensione del mandato della Banca europea per gli investimenti (BEI), alla quale è stato accordato il potere di fornire garanzie sulle attività finanziarie con l’Iran, in modo da sostenere gli investimenti europei – soprattutto di piccole e medie imprese – nel paese”.
L’arma più affilata che l’Europa dovrebbe mettere in campo per scudarsi dalle sanzioni americane è stata annunciata però dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera Federica Mogherini, strenuo difensore del JCPOA che vanta relazioni calorose con i vertici della Repubblica Islamica. Si chiama “Special Purpose Vehicle” (SPV), e, come spiega l’Ispi, è “un meccanismo legale in grado di supportare e processare i pagamenti da e verso l’Iran, senza esporre le aziende europee al rischio delle ripercussioni statunitensi. L’SPV dovrebbe rendere possibile processare i pagamenti relativi tanto alle importazioni quanto alle esportazioni iraniane, petrolio compreso. Il meccanismo di funzionamento sarebbe quello della permuta: per esempio, l’invio di petrolio iraniano a società francesi, che permetterebbe a Teheran di accumulare credito da impiegare poi per pagare altre società europee per beni importati in Iran. In questo modo, non vi sarebbe transito fisico di moneta né nel sistema finanziario SWIFT (che da novembre sarà esposto al rischio di ripercussioni Usa) né in banche iraniane colpite da sanzioni”.
L’arma europea potrebbe, tuttavia, essere spuntata. L’SPV è pensato infatti su misura delle piccole e medie imprese che non hanno significativa penetrazione nel mercato americano e non temono, perciò, le ritorsioni di Washington. Le grandi imprese, invece, hanno tutto l’interesse a non essere escluse dal sistema a stelle e strisce e non si lasceranno facilmente persuadere da Bruxelles a sfidare frontalmente il governo americano. “Di conseguenza”, osserva l’Ispi, “lo scenario che appare al momento più probabile è quello di una continuazione delle attività delle piccole-medie imprese, ma di uno stop delle grandi compagnie, ovvero quegli attori che avrebbero potuto dare nuova linfa alla stremata economia iraniana”.
L’economia iraniana, su questo ci sono pochi dubbi, accuserà il colpo. Il petrolio rappresenta una fonte indispensabile di liquidità per il bilancio della Repubblica Islamica. Le conseguenze delle sanzioni Usa si faranno sentire, soprattutto da parte della popolazione, già provata dal deprezzamento della valuta nazionale e dall’impennata del costo della vita e di generi di prima necessità. Oltre “agli evidenti effetti penalizzanti dell’imminente aumento del costo della vita”, nota l’Ispi, “si segnalano già in questi mesi alcune difficoltà nel mantenere aperti i canali per il commercio di beni umanitari. Sebbene esistano delle esenzioni per i beni del settore medicale e altre categorie afferenti al commercio umanitario, si registra una riluttanza da parte delle banche europee a finanziare tali transazioni, soprattutto dopo che lo scorso 16 ottobre il dipartimento del Tesoro USA ha annunciato nuove sanzioni contro 20 aziende e istituzioni finanziarie iraniane tra cui la Parsian Bank, attraverso la quale transitava finora la maggior parte degli scambi con l’UE, inclusi quelli in ambito umanitario”.
In queste circostanze, il rischio maggiore è rappresentato dalla possibilità di un rafforzamento in Iran del fronte radicale e ultraconservatore, che già in questi mesi ha messo il governo del presidente Hassan Rouhani sul banco degli imputati per la difficile congiuntura economica e l’incapacità di tenere testa al comportamento aggressivo di Washington. “Già estremamente indebolito”, continua il dossier Ispi, “il presidente (Rouhani) difficilmente godrà in questi rimanenti tre anni di mandato del capitale politico necessario a implementare quell’agenda di cauta apertura e riforme per la quale era stato eletto. Alle prossime elezioni presidenziali, nel 2021, a essere eletto potrebbe dunque essere un esponente della fazione ultraradicale, che già in questi mesi sta incolpando l’amministrazione Rouhani del peggioramento della situazione economica, cercando dunque di sfruttare le azioni USA a proprio favore”.
Paradossalmente, quindi, le mosse americane potrebbero generare uno scenario sfavorevole, vale a dire l’uscita di scena di un esecutivo moderato e la sua sostituzione con un governo di duri e puri che rifiuterebbe ogni forma di dialogo con Washington. Ma l’America, probabilmente, scommette sul collasso dell’intero sistema e, quindi, la caduta di un regime che non le è mai andato a genio.