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Ue Cina

Quali conseguenze dopo le sanzioni tra Europa e Cina?

Che cosa cambierà con la guerra di sanzioni tra Europa e Cina. L'intervento di Roberto Santoro

 

Unione europea, Stati Uniti e Gran Bretagna provano ad alzare il tiro contro la Cina, imponendo sanzioni contro membri del partito comunista e delle strutture paramilitari del Dragone, accusati di aver pianificato la repressione degli Uiguri, la minoranza dello Xinjiang cinese. La risposta non si fa attendere, con una raffica di contromisure prese contro eurodeputati, organismi istituzionali e centri di ricerca europei che, secondo Pechino, avrebbero danneggiato “sovranità e interessi” cinesi.

Il presidente del Parlamento europeo Sassoli ha definito “inaccettabili” le sanzioni di Pechino, aggiungendo che avranno delle “conseguenze”, mentre Mister Pesc, l’alto Rappresentante per la politica estera della Ue, Borrell, plaude alla azione “perfettamente coordinata” dei Paesi occidentali, in attesa del prossimo vertice Nato al quale parteciperà anche il segretario di stato americano Blinken. Fin qui la cronaca della giornata di ieri, con la decisione presa da parte occidentale di mettere ancora una volta al primo posto la questione dei diritti umani negati in Cina.

Le organizzazioni per i diritti umani denunciano da anni il progetto di internamento cinese ai danni degli Uiguri, perseguitati, arrestati, con famiglie divise dai loro figli, donne costrette alla sterilizzazione forzata, campi di rieducazione. Ma sono sufficienti le sanzioni per dire, come si legge da un po’ di tempo su tanti giornali e sui social, che ci sono dei “falchi” nella politica estera americana e occidentale verso la Cina?

Così non sembra. Basta ricordare il sermone di mezz’ora che la diplomazia cinese ha riservato al segretario di stato Usa Blinken al bilaterale tra le due superpotenze che si è svolto ad Anchorage, in Alaska, la settimana scorsa, per comprendere che non saranno certo sufficienti le misure restrittive imposte dall’Europa a far abbassare la cresta al regime. Ad Anchorage i diplomatici di Pechino hanno avuto il coraggio di paragonare la repressione contro gli Uiguri alla questione di Black Lives Matter, dicendo che gli Usa hanno “molti problemi sui diritti umani”. Peccato che BLM sia un movimento che in America spopola nelle università e organizza regolarmente grandi manifestazioni di piazza.

Eppure dopo la mezz’ora di reprimenda cinese (“l’America non mostra segni di rimozione della tossicità della amministrazione Trump…”), la risposta dei diplomatici Usa invece di essere, per fare un esempio, boicottiamo le prossime Olimpiadi in Cina, si è limitata a una constatazione: Washington e Pechino, su tante questioni, sono “fondamentalmente in disaccordo”. Con questi falchi l’Occidente non andrà lontano. Se davvero si vuole mostrare di avere un atteggiamento più adulto di quello mostrato dall’Occidente nei confronti di Pechino negli ultimi anni, bisogna essere consapevoli del fatto che la “Guerra Fredda” del Ventunesimo secolo non la vinceremo solo sui diritti umani.

Bisogna rimettere in discussione il modello delle relazioni politico economiche tra Occidente e Cina. Pechino negli ultimi decenni è diventata una potenza globale perché i Paesi occidentali non hanno mai ostacolato il modello comunista basato sulle sovvenzioni del partito alla industria di stato cinese, non sono mai state prese misure eccezionali contro le frodi sistematiche sulla proprietà intellettuale e sullo spionaggio industriale, che negli Usa ha portato a tante inchieste della Fbi. Abbiamo intrecciato le economie occidentali con quella cinese, ma al decollo della Cina che ha acquisito ormai una posizione dominante nella produzione di tante  tecnologie avanzate e nelle forniture essenziali, in Occidente ha corrisposto solo la distruzione di milioni di posti lavoro. Il pressing sui diritti umani, dunque, non è sufficiente.

La Cina non è l’Unione Sovietica, che mentre reprimeva il dissenso aveva una economia che stava cadendo a pezzi. La potenza dei cinesi deriva dal potere economico, dallo sfruttamento di saperi, conoscenze, innovazione tecnologica occidentale che Pechino è riuscita a garantirsi ergendosi a interlocutore economico privilegiato di Europa e America. I Paesi occidentali dovrebbero smetterla di dipendere dal regime di Wuhan per ottenere mascherine, dpi, prodotti farmaceutici, smetterla di essere dipendenti da Pechino nelle “terre rare” – i metalli delle nuove tecnologie – e smetterla di esportare così tante tecnologie come AI e 5G verso la Cina. Dovremmo anche porci seriamente il problema di cosa accade nelle università e nei centri di ricerca occidentali foraggiati da Pechino, come ha denunciato il senatore americano Tom Cotton.

Le sanzioni per la repressione contro gli Uiguri sono un segnale, ma se l’Occidente continuerà ad avere un atteggiamento di apertura generosa quanto ingenua verso Pechino su economia, ricerca e tecnologie, resteremo agnelli scambiati per leoni. Occorre iniziare a separare i due modelli economici che abbiamo integrato, sbagliando. Questo permetterà da una parte di tutelare mercati, sistema industriale, mondo del lavoro in Occidente. Dall’altra, spingerà il regime comunista a sgretolarsi, pezzo dopo pezzo.

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