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I giochetti di Putin fra Cina e Ucraina

Qual è il vero piano geopolitico ed economico di Putin. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Da un lato la lucida, seppur cinica, strategia di Vladimir Putin. Dall’altro il casino italiano, con la voglia finora a stento repressa, di Giuseppe Conte e Matteo Salvini, di far fuori Mario Draghi. Dando fondo, in tal modo, alla principale risorsa che l’Italia può spendere sul piano internazionale. E nel mezzo un’Europa, ancora incerta e smarrita, che non sa come uscire da una morsa economica e finanziaria che è conseguenza delle strategie del nuovo imperatore di Mosca.

Per capire qual è la vera posta in gioco, altro che le elucubrazioni di Alessandro Orsini, bisogna conoscere il pensiero del leader intellettuale degli ultraconservatori: l’economista Sergei Glazyev. Membro a pieno titolo dell’Accademia russa delle Scienze fin dal 2008 ed ascoltato consigliere delle élite russe. Non solo di Putin. Base teorica dei suoi studi, l’analisi dei cicli economici, grazie ai contributi offerti da Nikolai Kondratiev e Joseph Schumpeter. Un binomio che la dice lunga sul carattere eclettico della sua formazione. Del resto, sul piano teorico, in Occidente, un simile approccio era noto fin dal 1988 (Giovanni Dosi ed altri: Technical change and economic theory – Pinter publishers).

Le ondate di innovazioni, all’origine dei cicli Kondratiev – questo il nocciolo della sua teoria – definiscono le nuove frontiere tecnologiche. La nazione più efficiente, che riesce a fondare su di essa una sua posizione dominante, conquista una supremazia che non è solo economica-finanziaria, ma politica. Nel testo precedentemente citato, Christopher Freeman e Carlota Perez individuano ben 5 grandi cicli, a partire dal 1770. Segnati dalla nascita della prima industrializzazione fino allo sviluppo della moderna ICT. Durante questo lungo periodo l’egemonia, a livello internazionale, passò dall’Inghilterra, alla Germania ed infine agli Stati Uniti ed al Giappone. Ora – questo almeno l’auspicio di Glazyev – è giunto il tempo della Cina, con la quale la Russia deve allearsi.

Ma, attenzione: allearsi cercando, tuttavia, di accrescere il proprio potere contrattuale, sia nella lotta contro l’Occidente, ma soprattutto la Nato, sia nei confronti stesso di Pechino. Puntando, in questo secondo caso, sulla prospettiva Euroasiatica: una sorta di Unione economica e politica, costituita dalle ex Repubbliche sovietiche (Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan) con l’aggiunta, come semplici osservatori dell’Uzbekistan, dell’Armenia e della Moldavia. Ed avente come ideal-tipo l’Unione europea.

Fin dall’inizio, tuttavia – come aveva osservato l’ISPI, fin dal 2014 – l’Ucraina “rappresentava il cardine del progetto di Unione Eurasiatica nella sua integrità territoriale, non nelle sue singole parti. Senza l’Ucraina – senza, quindi, il peso politico e simbolico dell’alleanza Mosca-Kiev, le capacità produttive e diversificate nelle regioni sudorientali del paese, i 45 milioni di abitanti che avrebbero esteso il mercato interno dell’Unione Doganale di circa un terzo – la futura Unione Eurasiatica è privata della sua dimensione europea; non è più in grado nell’immediato di proporsi come credibile modello”.

Semplice economicismo? Magari fosse così. Le preoccupazioni sarebbero minori. Ed invece dietro le bombe che massacrano il popolo ucraino è una lunga tradizione non solo politica, ma culturale, che affonda le sue radici nella storia più antica della Russia. E che uomini come Lev Gumilëv hanno saputo portare alla luce, con uno scavo durato anni ed una passione straordinaria. Mentre altri, come Aleksandr Dugin hanno cavalcato politicamente, portandola alle orecchie di Putin. Da quest’ultimo accetta in una serie di discorsi pubblici, in cui il riferimento alle teorie eurasiatiche ed ai loro risvolti politici, soprattutto anti occidentali ed anti americani, l’hanno fatta da padrone.

Sul piano più strettamente politico, la svolta putiniana inizia a manifestarsi all’indomani della crisi dei subprime americani 2007, che sull’economia russa, seppure con qualche anno di ritardo, ha un impatto devastante. Dimostrando, al tempo stesso, l’impossibilità per quel Paese di importare il modello di sviluppo di tipo occidentale. Subito dopo le rivoluzioni colorate in Georgia e Ucraina, con a monte il susseguirsi degli errori da parte soprattutto americana (Iraq e Libia), la politica estera russa subisce un drastico cambiamento. Ed una progressiva “svolta verso Est”. Che aveva come fulcro il tentativo di individuare uno spazio euroasiatico (discorso di Putin del 2011) e come fondamento un richiamo alle tesi di Gumilëv, (discorso di Putin all’assemblea della Federazione Russa del 12 dicembre 2012).

Nel perseguire quel disegno, tuttavia, la strada era in qualche modo sbarrata dalle tesi sulla “Belt and Road Initiative” che i cinesi avevano lanciato nel 2013. Rispetto alla quale la Russia di Putin, inferiore per potenza economica e finanziaria, oltre che per il peso demografico, non poteva certo competere. Ma solo accettare una posizione subalterna di portatore d’acqua, rinnovando lo “scambio ineguale” – altro argomento appassionante degli anni ‘70 – tra centro e periferia, tra Paesi sviluppati e semplici produttori di materie prime e prodotti agricoli.

Nel 2016 lo stesso Putin aveva cercato di esorcizzare il dilemma, vagheggiando l’idea di una “Grande Eurasia”, suggerita dagli analisti del Valdai Club, uno dei tanti think tank, moscoviti in appoggio al presidente. Ma ad una condizione, come dirà più tardi uno dei suoi esponenti Sergej Karaganov: “il partenariato della Grande Eurasia dovrebbe basarsi sui postulati tradizionali della legge internazionale e della coesistenza internazionale, nonché sul rifiuto di tutte le forme di internazionalismo di supremazia di certi valori sugli altri e sulla ragione o l’egemonia di qualcuno”. Una grande utopia. Forse per questo Putin voleva l’Ucraina: un’assicurazione contro le mira del dragone.

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