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Tunisia

L’imperialismo straccione alla Putin si rivolterà contro Putin

Non solo invadere l’Ucraina, comunque vada a finire, ha rappresentato per Putin una sconfitta cocente, per le conseguenze sul piano internazionale. Non solo l’odio da parte dei congiunti di coloro mandati al macello, ma con l’impossibilità fisica di provvedere alla ricostruzione dei territori conquistati dalla Russia. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Il New Lines Institute e il Raoul Wallenberg Center for Human Rights hanno condotto un’indagine approfondita per vedere se la Federazione russa possa essere accusata di genocidio, nella sua guerra di aggressione nei confronti dell’Ucraina. Come si ricorderà, fu Joe Biden ad usare tra i primi questa espressione, sollevando un coro di critiche da parte degli amici di Putin. Ma anche da parte di coloro che ritenevano quel giudizio inappropriato. Da qui un lavoro di équipe in cui fossero presenti oltre ai giuristi e agli investigatori, linguisti: “in grado di utilizzare l’ampio record di fonti primarie – come precisato nello speach – che questa guerra ha già creato – di intercettazioni di comunicazioni e testimonianze”.

Nel rapporto conclusivo si afferma che “la Russia ha la responsabilità dello Stato per le violazioni dell’articolo II e dell’articolo III (c) della Convenzione sul genocidio a cui è vincolata. Il rapporto conclude inoltre che esiste indubbiamente un rischio molto serio di genocidio, che fa scattare il dovere degli Stati di prevenire ai sensi dell’articolo I della Convenzione sul genocidio.” Nel 1946 era stato l’Onu a dichiarare che “il genocidio” era “un crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle Nazioni Unite e condannato dal mondo civile”, ma la relativa Convenzione aveva visto la luce nel 2000, per entrare in vigore, dopo l’approvazione dei diversi Stati, solo alla fine dello stesso anno. La Russia, invece, l’aveva approvata fin dal 1954.

Il rapporto denunciava la violazione dell’articolo 2 della Convenzione, che collega il genocidio al tentativo “di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale”, mediante: “a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.” Ed al punto c) dell’articolo seguente: “l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio”.

Ma al di là di qualsiasi considerazione giuridica, quello che più colpisce nel report è la documentazione fotografica allegata. Nel mirino i bombardamenti su Irpin, Bucha e più in generale nell’area di Kiev. Riprese satellitari durate più di un mese che mostrano la progressiva intensificazione dei bombardamenti, con le inevitabili conseguenze in termini di morte, distruzione abomini. In una sol parola i 4 cavalieri dell’apocalisse. Ed è allora che la strategia di Vladimir Putin, già contraddittoria fin dall’inizio diventa incomprensibile.

Le prime mosse dell’invasione erano state degne della migliore tradizione sudamericana più pasticciona. Putin pensava ad una festosa passeggiata come le guerre del primo ‘800. La cavalleria, in questo caso i carri armati, che avanza in un tripudio di bandiere tra due ali festanti di folla che agitano i colori della Federazione russa. Le donne ed i bambini in prima linea. I sindaci che consegnano le chiavi della città ai “liberatori”, mentre nella piazza del Paese iniziano le danze. I cattivi nazionalisti, che scappano per evitare di pagare il fio delle loro colpe naziste. E solo dopo qualche giorno ecco il ritorno trionfante di Viktor Ianukovich, l’amico di sempre, cacciato a calci da una rivolta popolare, per non aver voluto portare il suo paese verso l’Unione europea. E che ora ritorna come un angelo vendicatore.

Un miraggio, un sogno che si è trasformato nell’incubo dei 90 giorni di guerra totale. Con una ferocia che ha pochi precedenti. Gli esperti di cose militari sostengono che questo è il modo di combattere deciso dal comando russo. Quel martellare continuo ed ossessivo contro le principali città del teatro da conquistare. Bombe di ogni tipo, comprese quelle da tempo bandite a livello internazionale (bombe al fosforo o a grappoli), che servono per uccidere, ferire o semplicemente brutalizzare uomini, donne e bambini. A polverizzare edifici, infrastrutture, abitazioni. Ma soprattutto a fiaccare il morale delle truppe combattenti, nella speranza di offrire un ombrello alle proprie truppe, prima di scatenarle nella presa di città, ormai ridotte ad un cumulo fumante di macerie.

Rispetto dei propri combattenti? Fosse questa la molla ispiratrice non si sarebbero abbandonati, in sacchi dell’immondizia, i corpi dei caduti. Contravvenendo in tal modo ad una delle regole che, da tempo immemorabile, ha segnato il comportamento di qualsiasi esercito. Il dovere di riportare a casa coloro ch’erano caduti nell’adempimento del proprio dovere. Sennonché, in questo caso Putin avrebbe dovuto giustificare, di fronte alla propria opinione pubblica, la morte di circa 30 mila uomini (stando alle stime): troppi per una semplice “missione militare speciale”. Con il rischio di incrinare quella “verticale del potere” (copyright di Surkov, ascoltato consigliere di Putin) che rappresenta l’ossatura di un regime dispotico, come quello vigente a Mosca.

Nonostante questi ignobili accorgimenti, tuttavia, non sarà possibile ottenere la quadratura del cerchio. Una ferocia così devastante, nelle zone una volta russofile, ha modificato profondamente la geografia locale. Ed oggi è difficile calcolare quanti ancora vorranno entrare a far parte di quello Stato che ha distrutto la propria famiglia, disintegrato la propria casa, trasformato il proprio habitat in un deserto senza vita. Ci vorranno anni per tornare alla vita che aveva preceduto il 24 febbraio. Soprattutto tanti soldi – tra i 500 ed i 1000 miliardi di dollari, secondo le stime più recenti – una cifra enorme, che la Russia difficilmente sarà in grado di sostenere. Si tratta infatti di un importo compreso tra il 35 ed il 70 per cento del Pil russo, stimato nel 2022 in 1.417 miliardi di dollari.

Ed ecco allora la triste morale di una tragica avventura. Non solo invadere l’Ucraina, comunque vada a finire, ha rappresentato per Putin una sconfitta cocente, per le conseguenze indotte, sul piano internazionale, dalla scelta compiuta. Ma alla fine si troverà con un pugno di mosche. Non solo l’odio da parte dei congiunti di coloro mandati al macello, ma con l’impossibilità fisica di provvedere alla ricostruzione dei territori da lui stesso conquistati. Eppure la storia qualcosa doveva insegnargli. L’imperialismo, da che mondo è mondo, come insegnava un autore che lo stesso Putin avrebbe dovuto conoscere, rappresenta “la fase suprema del capitalismo”. Ed invece quello di Putin altro non è che una variante di quell’“imperialismo straccione” che lo stesso Lenin aveva più volte criticato. Evidentemente senza costrutto.

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