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Navalny

Ecco come i putinisti infangano Navalny

La disinformazione filo Putin intorno alla morte di Navalny si sta già organizzando. Nomi e tesi. L'analisi del generale Carlo Jean

La morte del più noto – almeno in Occidente – oppositore di Putin ha suscitato sconcerto, in gran parte dell’opinione pubblica, alquanto ipocrita, anche perché si è trattato di un evento ampiamente previsto. Se ne è approfittato per fare una facile propaganda contro il regime del Cremlino. Facile perché quasi tutti erano già consapevoli di che cosa sia: una brutale dittatura che non rifugge dall’assassinio politico per consolidare il suo potere, limitando con il terrore ogni possibilità di opposizione e mantenendo la coesione del gruppo dirigente, con il saccheggio del patrimonio pubblico. Evidentemente, il terrore non è sufficiente per la stabilità del regime. Va comunque continuamente alimentato. Inoltre, come in tutti gli Stati totalitari deve godere di un certo grado di consenso. Quest’ultimo è fondato in Russia su di un diffuso patriottismo, rafforzato dal sostegno dell’Ortodossia – trasformatasi con il Patriarca Kirill in “braccio religioso del regime di Putin – e, soprattutto, sui ricordi di una storia gloriosa dallo zarismo alle vittorie contro le invasioni da Est e da Ovest, specie nella “Grande Guerra Patriottica”. Putin si ritiene interprete delle tradizioni della “Grande Madre Russia” e ne vuole ripristinare la grandezza, scomparsa a causa di quello che chiama “il maggiore disastro geopolitico del XX secolo”, cioè il collasso dell’URSS.

CHI ERA DAVVERO NAVALNY

Anche Navalny era un patriota russo. Non era un’europeista, come molta propaganda occidentale è indotta a far credere. Da buon russo nutriva anche sentimenti razzisti – se non xenofobi – nei confronti delle popolazioni non slave, specie quelle islamiche, facenti parte dell’Impero. Aveva chiamato i ceceni “scarafaggi” e la sua domestica azera “culo nero”. Aveva applaudito alla guerra in Georgia del 2008 e all’annessione della Crimea nel 2014. Era stato espulso dallo Yabloko (“Partito della Mela”, liberale unitario), a cui aveva aderito negli anni Novanta, per aver partecipato nel 2008 ad una manifestazione di estrema destra.

Voleva bonificare la Russia dalla corruzione e dalla cleptocrazia e ripristinare le libertà individuali, minacciate da Putin. Era stato favorevole alla guerra del 2008 contro la Georgia, ma contrario all’aggressione all’Ucraina. Era persuaso che l’aggressività verso l’Ucraina e il porre il popolo russo in stato di guerra permanente fossero funzionali agli interessi del regime e al mantenimento del potere e delle ricchezze  degli oligarchi che stavano depredando lo Stato e il popolo delle loro ricchezze. Tale programma era centrale nel Partito “Russia Futura” che aveva fondato, per trasformazione del movimento di protesta “Narod” (“Popolo”), che aveva inizialmente fondato e che, con il suo nazionalismo, costituiva un robusto concorrente al regime di Putin. Quest’ultimo ne temeva l’influenza sulle masse, anche perché, con il suo patriottismo, non poteva essere screditato come “traditore”. Ciò spiega l’accanimento usato nei suoi confronti.

Le angherie e gli attentati alla sua vita hanno attirato su di lui l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, come campione della libertà ed eroe della democrazia. Minore seguito sembra avere avuto la sua azione in Russia, sia perché libertà e democrazia ricordano il caos della presidenza Eltsin, sia perché l’opinione pubblica è più apatica, rassegnata e timorosa della repressione del Cremlino. Questo spiega perché Putin abbia potuto tranquillamente eliminare Navalny non solo senza temere particolari reazioni, ma utilizzando l’evento – anche con il mistero sulle cause della morte del suo oppositore e la tragicommedia sul destino della sua salma, per diffondere il timore del suo regime, forse in vista delle elezioni presidenziali di marzo. Non gli bastava averlo segregato in una regione sull’Artico. Continuava a temerlo poiché Navalny era certamente un genio della comunicazione.

IL CORO DEI SOSTENITORI DI PUTIN

Il “coro” dei sostenitori di Putin si è subito mobilitato. Lilin ha affermato che Navalny era un “nazista xenofobo”. Altri si sono limitati a ignorare l’uccisione di Navalny. Ai “soliti noti” in Italia se ne sono aggiunte nuove voci. La professoressa Bompiani, in una trasmissione TV, ha “ricicciato” l’esclusione di Navalny dalla lista dei “Carcerati per motivi di coscienza” decisa da Amnesty International. Ha in pratica ironizzato sul fatto che, a differenza di quanto fatto dai suoi “cantori” occidentali, Navalny non possa, quindi, essere considerato né un “santo” né un “puro eroe”. Beninteso, si è dimenticata di aggiungere che la stessa esclusione era capitata a Nelson Mandela, il che, per inciso, la dice lunga su Amnesty International e sulla sua credibilità di rinvangare frasi dette una quindicina di anni prima. A parer mio, sarebbe come dire che fu il Partito Socialista a organizzare la “marcia su Roma”, visto che Mussolini ne faceva parte una decina di anni prima.

Comunque sia, una volta che gli “scrivani di Putin” si riprenderanno del tutto, ci si potrà aspettare di sentire anche che Navalny sia morto di raffreddore, o che la responsabilità della sua morte sia della NATO, o degli USA, o così via. Si tenterà, comunque, di ridimensionare la figura e il messaggio di Navalny nel tentativo di ridurre gli effetti negativi della sua morte sulla credibilità del loro “padrone” del Cremlino. Per distrarre l’attenzione, non è un caso che quest’ultimo abbia subito parlato di pace, cioè di resa senza condizioni dell’Ucraina.

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