Dalla finestra della sua cella nella colonia penale n. 3 – chiamata ‘lupo polare’ – a Kharp della regione di Jamalo-Nenets, nel Nord degli Urali, a più di 2 mila km da Mosca, oltre i confini del Circolo polare artico, Alexey Navalny poteva forse vedere filtrare la luce per due o tre ore al giorno. In regime di isolamento (15 gg), per la ventisettesima volta in tre anni, aveva ironizzato su quella reclusione ai confini più estremi del mondo, dove era giunto il 23 dicembre scorso: “Sono il vostro nuovo Ded Moroz”, il Babbo Natale russo a regime speciale”, descrivendo il proprio abbigliamento e i regali che avrebbe portato. Ma nessuno avrebbe anche solo immaginato che potesse sopravvivere ad un regime di detenzione durissimo: se qualcuno dei prigionieri avesse varcato l’alta rete di recinzione del penitenziario sarebbe stata sbranato dagli animali selvaggi che infestano quel territorio immenso e lontano da ogni possibile rifugio umano.
Ripercorrere gli ultimi anni della sua vicenda giudiziaria significa immaginare, senza forse nemmeno possibilmente descrivere, la sua salita al Calvario che si è conclusa con una morte che resterà avvolta nel mistero, nonostante le relazioni delle autorità sanitarie che accerteranno con meticolosa burocrazia criminale le cause del decesso.
Arrestato nel 2021, al rientro a Mosca da Berlino dove era stato ospitato e curato per l’avvelenamento da gas nervino Novichok, Alexei sapeva di andare incontro ad un destino breve: condannato in un primo tempo a nove anni di reclusione nella colonia penale di Melekhovo, aveva subito un successivo grado di giudizio a porte chiuse, praticamente senza difesa legale, al termine del quale gli erano stati inflitti 19 anni per “estremismo” secondo un marchingegno giudiziario studiato a tavolino dal regime cleptocratico sotto la guida del FSB, erede del KGB. Forse nemmeno Kafka avrebbe potuto descrivere in tutti i suoi risvolti impenetrabili un teorema così spietato e determinato da un lato, quanto incomprensibile, assurdo e grottesco dall’altro. Già in quella sede si erano scritte le ultime pagine della vita di Navalny, fiero e coraggioso oppositore del regime: la sua immagine, il suo volto scavato dalla sofferenza e dall’isolamento erano insieme l’icona della spietatezza a cui piò giungere l’animo umano e dall’altro il segno di una lenta espiazione del ‘nulla’, poiché ogni imputazione era semplicemente la rappresentazione di ciò che la filiera della dittatura andava costruendo in modo del tutto falso, anche se restituiva ai suoi sostenitori il coraggio e la volontà di opporsi al male, di resistere fino alla fine, per lasciare una traccia, un percorso che prima o poi qualcuno potrà riprendere.
L’eroismo di Navalny non consisteva tanto in gesti eclatanti di resistenza quanto nell’evidenza delle parole ferme e pacate che riusciva a far filtrare e trasmettere in tutto il loro significato simbolico ed evocativo. La giustizia e il suo opposto, l’ingiustizia, hanno diverse forme di rappresentazione nel mondo: la vicenda umana di Navalny ha messo in luce gli impliciti e le contraddizioni insostenibili di un regime che non ammette opposizione politica e revisionismo ideologico. Penso – per un confronto che mi è necessario per capire fin dove arriva la polarizzazione giudiziaria – alle diatribe di piccolo cabotaggio e alle procedure discutibili sui tempi dei processi, gli sconti di pena, l’avvalersi della facoltà di non rispondere, le congetture sulla flagranza di reato o sulle attenuanti generiche: cito a caso per rimarcare quanto in democrazia contino i dettagli e le sfumature, cosa non pensabile dove politica e magistratura sono un tutt’uno per costruire un solido e inscalfibile apparato processuale, dove l’imputato è già condannato dall’ideologia dominante prima ancora di entrare in un’aula di giustizia. Il carcere dove ha concluso il suo transito terreno l’eroe Alexey Nalvalny, di fronte al quale dobbiamo inchinarci per riconoscere il valore della coerenza e ricordare certe pagine della nostra storia, narra la presenza di un eroe che lascia un esempio che va oltre la sua personale esistenza, così fu per le vicende umane degli ospiti dei lager, così è oggi per quest’uomo che rientrando in Patria senza sottrarsi ai pericoli di un regime che lo aspettava al varco, decise di andare avanti senza remore, sotto gli occhi del mondo.
Il processo sommario subito e la carcerazione più dura che si possa immaginare, senza contare il regime di isolamento, l’ambiente, le restrizioni delle pur minime libertà personali sono la rappresentazione di un martirio: ci vogliono gli eroi e pure i martiri per comprendere quanto possa essere spietato, crudele ingiusto l’animo umano.
Come può essere credibile la trama e la ricostruzione dei fatti nell’aggressione all’Ucraina di cui ricorrono tra pochi giorni due anni di distruzione e di morte?
È nelle corde della tirannia la scelta tattica dell’annientamento, radendo al suolo città e villaggi, facendo vilipendio dell’amor di Patria di un popolo, umiliando la dignità e la personalità, le idee di una singola persona.
Navalny conclude in modo silente ma drammatico la sua vita terrena ma forse la sua fine può dare coraggio a quella parte del suo popolo che ha compreso che Putin porterà il Paese allo sfacelo e – nello stesso tempo – rinsaldare i legami e i disegni del mondo libero che ha capito, non è mai troppo tardi, che un despota non ha remore morali perché spinto solo dall’odio e dalla volontà di distruzione. Navalny ha resistito stoicamente al massacro fisico e alla disperazione della solitudine: dobbiamo raccogliere il testimone che ci consegna perché non c’è nulla di più prezioso da imparare che la coerenza di una vita.