L’opposizione, scagliandosi a testa bassa contro il cosiddetto “Piano Mattei”, continua a sbagliare. Si è trattato, in genere, di una reazione scomposta, e, in qualche modo, irriguardosa nei confronti dello stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, che ha ricevuto in Quirinale la numerosa delegazione di rappresentanti europei ed africani, interessati all’iniziativa. Una settantina di delegazioni, 25 Capi di Stato e di Governo, 11 Ministri degli Esteri (alcuni dei quali bollati da il Fatto come “non proprio accettabili”) i vertici dell’Unione europea, nelle persone di Ursula von der Leyen, Roberta Metsola e Charles Michel. Un parterre che non si ritrova proprio tutti i giorni. Ed un discorso, quello di Mattarella, tutt’altro che formale.
Ebbene, di fronte a questo schieramento, i commenti sono stati convergenti. È più o meno una “scatola vuota” (Francesco Boccia). Idem per Nicola Fratoianni che vi vede una “nuova politica di stampo neo coloniale”. Stesso refrain per Angelo Bonelli che denuncia il “ruolo, predatorio, nello sfruttamento delle risorse naturali africane”. Solo più tartufesco il commento di Giuseppe Conte: “Ma cos’è questo Piano Mattei?” Il minimo comune denominatore che lega questi diversi interventi è la critica alle scarse risorse individuate per far fronte ad un impegno che non può riguardare solo l’Italia, ma l’intero Occidente. Passando ovviamente per le principali capitali europee.
Più espliciti di tutti Il fatto quotidiano. “L’UE – osserva – non ha molto da dare” Ci sono solo “spiccioli per la cooperazione e ancor meno per ‘migrazione e gestione delle frontiere’ (2 miliardi in 4 anni)”. Lo stesso dicasi per l’Italia che “per la cooperazione internazionale” investe solo “lo 0,26% del Pil contro un impegno sempre rinviato di arrivare allo 0,7%”. Come se l’esperienza passata deponesse a favore del semplice trasferimento di risorse finanziarie: il più delle volte utilizzate per ingrassare qualche potentato locale. Se non quando, come nel caso dell’UNRWA, a foraggiare il terrorismo di Hamas.
L’Africa non è quel deserto che lo spirito missionaristico di tante anime belle si sforza, senza peraltro riuscirsi, di descrivere. Lo sviluppo del processo di globalizzazione, a partire dagli inizi degli anni ’90, ha profondamente cambiato il volto di quello che una volta era descritto come il “Continente nero”. Non solo per il colore prevalente dei suoi abitanti, ma come sinonimo di abisso, di miseria, povertà e indigenza. “I dannati della Terra”, appunto. Per riprendere il titolo di un vecchio saggio di Franz Fanon, allora, come molti, esponente della teologia della liberazione. Dal 1990 in poi il suo tasso di crescita in media è stato pari, secondo i dati del Fondo monetario, al 3,9 per cento annuo. Quasi due volte quello delle economie avanzate. Distanze che sono ulteriormente cresciute dopo la (GFC) Global Financial Crisis del 2007. Naturalmente, trattandosi di medie, come insegnava Trilussa, c’è chi sta meglio e chi sta peggio. Ma, in generale, l’Africa non ha tanto bisogno di elemosine, quanto di “capitani coraggiosi” decisi ad investire e compartecipare allo sviluppo complessivo. La via del Sud est asiatico insegna.
Federico Rampini, dalle colonne del Corriere della sera, sottolineava il grande sviluppo della classe media africana: “330 milioni di persone”. Un “quarto della popolazione. Però sono l’equivalente di tutti gli abitanti degli Stati Uniti”. Conseguenza di quel tasso di sviluppo accelerato che ha alimentato il fenomeno della forte urbanizzazione e rallentato il ritmo di crescita demografico, contribuendo a sdrammatizzarne gli effetti di tipo malthusiano. Certo, c’è ancora moltissimo da fare. Ma questo “da fare” supera la pura logica dei “grant” degli aiuti a fondo perduto. Di quella sorta di “reddito di cittadinanza” che non produce sviluppo in alcuna parte del Mondo. Ma che nel caso dell’Africa ha contribuito ad arricchire una vecchia classe dirigente ed impoverire sempre più fragili ed indigenti. Senza contare le immense ricchezze naturali che si celano in quelle terre e che una politica non predatoria può rendere disponibili per contribuire alla soluzione di problemi collettivi. Che riguardano innanzitutto l’Africa, ma che l’intero Occidente non può continuare, come ha fatto finora, ad ignorare.
L’Occidente: perché altri Paesi hanno avuto la vista più lunga. Al punto da impostare, con la brutalità che è tipica dei Paesi autocratici, politiche neoimperialiste che fanno impallidire quelle dei secoli passati. La presenza cinese è estremamente diffusa: al punto che in molti Stati africani vi sono intere zone in cui si parla la lingua del Celeste Impero. Dall’Africa e dal Medio Oriente la Cina ha importato gran parte delle materie prime ch’erano indispensabili per il suo decollo industriale. Quindi, specie dopo la GFC, con il consolidarsi locale dello sviluppo urbano, le sue esportazioni di prodotti finiti sono divenute prevalenti. Nel frattempo, grazie al surplus delle sue partite correnti della bilancia dei pagamenti, investiva, seppure a credito, in infrastrutture e nella modernizzazione dei singoli Paesi. Costruendo, in tal modo, un nuovo rapporto di dipendenza. Perché alla fine i debiti contratti dovranno essere in qualche modo ripagati. Magari sotto forma di confisca di asset e ricchezze nazionali .
Ciò che i critici prevenuti di Giorgia Meloni non vedono è il lavorio delle diplomazie degli altri Paesi. Solo pochi giorni fa, il ministro degli esteri cinese Wang Yi aveva dedicato all’Africa il suo primo viaggio dell’anno, come succede regolarmente da tre decenni. Seguito a ruota dal Segretario di Stato americano Antony Blinken. Nel suo giro del continente ha fatto almeno una tappa in comune con il suo omologo cinese: Abidjan, in Costa d’Avorio. Non è un caso. Gli Stati Uniti, infatti, hanno ridato slancio alla diplomazia e alla cooperazione con l’Africa dopo anni di negligenza che hanno favorito l’ascesa di Pechino. Lo scorso 24 gennaio il presidente del Ciad Mahamat Idriss Déby – con indosso un boubou bianco, un abito tradizionale – era, invece, a Mosca, al fianco del presidente russo Vladimir Putin. Un incontro significativo: il Ciad, aveva condannato, all’Assemblea dell’ONU, l’invasione dell’Ucraina da parte di Mosca.
Insomma, per dirla con Antoine Glaser, di France24, l’Africa “ha il mondo intero nella sua sala d’attesa”. Russi, cinesi, statunitensi, ma anche indiani, turchi, iraniani, brasiliani, coreani e giapponesi. Tutte le potenze, grandi e medie, la corteggiano alla ricerca d’influenza, nuovi mercati o minerali rari. In questo lungo elenco manca – almeno finora è mancata – solo l’Europa ancora impelagata nei suoi trascorsi coloniali e nei suoi conflitti interni (si pensi solo alla Libia). Rimuovere quelle antiche storie, dalla testa dei popoli africani, non sarà facile. Ma se c’è una possibilità, questa si deve solo alla presenza rinnovata non di questa o di quella metropoli del vecchio Continente, ma all’Unione stessa. Con quella sua bandiera in campo azzurro che non cancella certo il passato, ma che può rappresentare una garanzia per il futuro.