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Perché Zingaretti e Gualtieri non possono far finta di nulla su Ruberti

Caso Ruberti: occorre domandarsi perché il Pd, e in particolare il Pd romano, affidi a personaggi di questo tipo le sorti di importanti e complesse strutture che il voto gli ha consegnato in gestione. E comunque il problema non è Albino “Rocky” Ruberti oggi come non lo era Franco “Batman” Fiorito ieri. Ecco perché.

 

La clamorosa vicenda che ha portato Albino Ruberti a dimettersi dalla carica di capo di gabinetto del Ssndaco di Roma, Roberto Gualtieri, non è che l’ultima tappa di una storia tutta interna alla sinistra romana nella quale il figlio dell’ex ministro socialista e commissario europeo Antonio Ruberti ha coltivato amicizie, rapporti e relazioni importanti.

Certamente, come le cronache hanno riportato, Ruberti non è nuovo a intemperanze e episodi extra istituzionali. Durante il raduno romano di Piazza Grande dell’ottobre 2018, con cui Nicola Zingaretti aveva lanciato la propria candidatura alla segreteria del Pd, si era lanciato contro un gruppo di animalisti italiani che contestava Zingaretti, strappando loro di mano i cartelli e spintonandone qualcuno.

Nel 2020, in pieno lockdown, mentre rivestiva la carica di capo di gabinetto di Zingaretti, riconfermato in regione, venne pizzicato dalla polizia a pasteggiare allegramente in compagnia su un terrazzo del Pigneto. Rivolgendosi agli agenti, sembra avesse pronunciato il canonico “lei non sa chi sono io”, così come i due figli di 19 e 17 anni avrebbero replicato alle forze dell’ordine, dopo esser stati fermati lo scorso febbraio per alcuni controlli nella zona dei Parioli.

A sentire chi ha lavorato con lui, Ruberti è un personaggio focoso ma efficiente, un Mr. Wolf alla vaccinara che, sebbene con fare ruvido, risolve problemi. Ecco perché, con ordinanza del 4 novembre 2021, il neo sindaco di Roma Gualtieri ne disponeva la nomina a capo di gabinetto, attesa la sua “elevata qualificazione culturale e professionale (…), ampiamente ed oggettivamente dimostrata nelle più che rilevanti esperienze professionali maturate presso organismi pubblici e privati”.

Insomma, un super manager dal profilo tecnico cui affidare la complicata macchina della capitale. Tuttavia, a leggere il curriculum dell’esuberante Ruberti Jr, ancora disponibile sul sito della Regione Lazio (non ve ne è traccia su quello del Comune), le cose non stanno proprio così. Sappiamo che il giovane Albino nel 1998, appena trentenne, sotto la sindacatura di Francesco Rutelli approda miracolosamente, senza laurea, alla carica di amministratore delegato di Zétema Progetto Cultura srl, società partecipata al 100% dal Comune, che opera nel settore cultura, diventandone poi, nel 2014, anche presidente sino al 2017. Ben 19 anni di regno incontrastato.

Dal 2017 al 2018 è stato anche presidente di Laziocrea, società che supporta la Regione Lazio nelle attività tecnico-amministrative: manco a dirlo, sempre senza laurea. Il 30 marzo 2018 è nominato capo di gabinetto della Regione Lazio dal riconfermato Zingaretti. Qualcuno storce il naso che un ruolo così delicato sia affidato a persona non laureata ma per la Regione conta l’esperienza maturata, nessun problema.

Ruberti, d’altronde, non resta con le mani in mano e finalmente, nel 2020, chiude il corso di laurea triennale in Operatore dei Beni Culturali presso l’Università telematica UniNettuno con una tesi su “Il Castello di Santa Severa. Recupero e valorizzazione”. Bene regionale, ovviamente.

La fulminante carriera di Ruberti, oggi azzoppata, è stata certamente dettata dalla sua innata capacità manageriale. Allo stesso tempo, pare altrettanto evidente che si tratti di una figura politica a tutto tondo, il cui percorso è stato legato alla politica che lo ha allevato e utilizzato, cercato e corteggiato.

Al di là delle gravissime parole pronunciate da Ruberti, e a meno di non voler davvero credere che il diverbio reso pubblico fosse scaturito da banali questioni calcistiche, occorre domandarsi perché il Pd, e in particolare il Pd romano, affidi a personaggi di questo tipo le sorti di importanti e complesse strutture che il voto gli ha consegnato in gestione.

Di cosa discutevano davvero durante l’alterco fuori dal ristorante Ruberti e De Angelis, politico locale del Pd di primo piano? E per conto di chi? È accettabile che chi deve affiancare il vertice politico nel governo della captale d’Italia si occupi, con tutta evidenza, di affari che nulla hanno a che vedere con l’attività per cui è pagato?

Ci si potrebbe magari chiedere perché le casse pubbliche debbano sostenere la vita professionale di personale che è apparato e parte integrante di un partito politico, invece di dar spazio a figure tecniche di garanzia, ma si invaderebbe la famelica discrezionalità dei partiti.

Quel che è solare è che non si può far finta di nulla. E non possono far finta di nulla Zingaretti e Gualtieri rispetto a Ruberti. Delle due, l’una: o lo hanno voluto o è stato loro imposto. In entrambi i casi, non ne escono bene.

Dopo la pazzesca vicenda della concorsopoli laziale dell’anno scorso, che ha visto il piazzamento in comodi posti fissi dei comuni del Lazio di una pattuglia di esponenti locali del Pd, l’affare Ruberti non fa che rendere ancora più evidente le modalità di gestione di potere locale del partito. Lo stesso partito che nel 2015 cacciò il marziano Ignazio Marino, le cui parole suonano oggi come un epitaffio per il Pd: “Tranne rare eccezioni, la classe politica coinvolta non si è mai distinta per rigore nelle nomine: il criterio della fedeltà a una corrente o al politico di turno prevale su quello del merito”. Tanto paga Pantalone.

Sia chiaro: il sistema laziale del Pd non è un unicum, ma un modus operandi comune a tanta classe politica che usa ogni spiraglio che le pubbliche amministrazioni offrono non solo come strumento di lotta politica (di per sé cosa grave) ma anche e soprattutto come mezzo per nutrire il proprio apparato, sistemando, attraverso figure chiave nei posti giusti, i propri fideles per un congruo numero di anni in posizioni pubbliche. Poi, magari, una stabilizzazione arriva sempre.

Slogan e le proposte splendono in campagna elettorale ma la gestione quotidiana, lontana dai riflettori, è quella che conta. Il problema non è Albino “Rocky” Ruberti oggi come non lo era Franco “Batman” Fiorito ieri: è bene ricordarsene.

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