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La “damnatio memoriae” di Ignazio Marino

Il Bloc Notes di Michele Magno

Nel diritto latino la “damnatio memoriae” era una pena comminata dal Senato agli “hostes”, ai nemici (o considerati tali) di Roma. In età repubblicana essa prevedeva la cancellazione del “praenomen” del condannato da tutte le sue raffigurazioni, e -nei casi più gravi- la “rescissio actorum”, ovvero la totale distruzione di tutte le opere realizzate nell’esercizio della propria carica. In età imperiale colpirà, anche dopo la loro morte, perfino la memoria degli imperatori spodestati o assassinati (tra cui Caligola, Nerone, Domiziano, Commodo, Eliogabalo). Il primo romano a essere colpito dall’istituto fu Marco Antonio per volere di Gaio Ottaviano Augusto, il figlio adottivo di Giulio Cesare che traghettò Roma verso il principato. Una tradizione che sopravvive nel memorabile “Marco Antonio” di William Shakespeare.

L’ultimo (non) romano ad averne fatto le spese è stato Ignazio Marino, con l’insediamento in Campidoglio del commissario Francesco Paolo Tronca. Cesare fu ucciso (Idi di Marzo, 44 a.C) dai congiurati con ventitrè coltellate. L’ex sindaco della Capitale, per non essere da meno, dopo oltre due millenni ha sostenuto di essere stato ucciso (politicamente) da ventisei coltellate (pari al numero dei consiglieri che si dimisero davanti a un notaio per defenestrarlo). Bruto e Cassio volevano eliminare un presunto tiranno. Marino, al contrario, ha sempre affermato di essere stato eliminato da un tiranno acclarato, unico mandante: Matteo Renzi. Ora che la Corte di Cassazione l’ha assolto dalla accusa di peculato (“l’affaire scontrini”, in verità, ha avuto aspetti grotteschi), gli si dovrebbe restituire almeno il “praenomen”.

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L’11 marzo 1947, uno dei costituenti più celebri e autorevoli, Benedetto Croce, fece un lungo intervento, non col “nome impopolare di filosofo” ma da letterato, giudicando il Progetto di Costituzione “opera non felicemente riuscita”, perché “scritta da più persone in concorso; [e] tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere”. A questa “prima cagione della mancanza di coerenza e di armonia” se ne aggiungeva un’altra ben più grave: che “i molti suoi autori […] non vi perseguivano un medesimo fine pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il Governo, non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposizione d’animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua al suo mulino, grazie a compromessi sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti vaghi o contraddittori, [che] abbondano nel disegno di Costituzione”.

Un giudizio assai duro, e per niente in linea con l’apologetica che si sarebbe sviluppata nel corso degli anni, magnificatrice del mirabile compromesso che portò alla Costituzione “più bella del mondo”. Come ha osservato Lorenzo Gaeta (“Prima di tutto il lavoro. La costruzione di un diritto all’Assemblea Costituente”, Ediesse, 2014), la drastica posizione di Croce rispecchiava il suo forte dissenso, come laico e liberale, con l’inclusione nella Carta dei Patti lateranensi, con l’impegno a garantire l’indissolubilità del matrimonio, con l’istituzione delle regioni e, infine, con la rigidità del meccanismo di revisione costituzionale. Per questo invocava lo spirito della libertà di pensiero affinché scendesse ad ispirare menti e cuori dei costituenti, ed era bene farlo così come facevano i cardinali in conclave con lo Spirito Santo, cioè pronunciando le stesse parole dell’inno sublime: “Veni creator spiritus, mentes tuorum visita, accende lumen sensibus, infunde amorem cordibus”.

Il suo appello non fu ascoltato, né dai costituenti né dallo Spirito Santo.

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