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De Angelis

Perché Vannacci e De Angelis parlano dell’italianità sbagliata

L'articolo di Giordana Terracina

 

Zachor, cioè “ricorda”. Nel Pentateuco in Deuteronomio 32,7, Mosè si rivolge al popolo ebraico esortandolo a ricordare: <<ricorda i tempi antichi, cerca di comprendere gli anni dei secoli trascorsi, interroga tuo padre e ti racconterà, i tuoi anziani e te lo diranno…>>.

È proprio rispondendo a questo imperativo che, giorni fa, in riferimento alla canzone “Settembre Nero” composta 40 anni fa da Marcello De Angelis, attuale responsabile della comunicazione della Regione Lazio, il presidente della Comunità ebraica di Roma, Victor Fadlun, ha esortato a ripudiare <<i luoghi comuni dell’antisemitismo e le vergognose distorsioni della storia>>.

E l’ha fatto secondo il suo sentire ebraico.  L’ha fatto aprendo un dialogo tra il passato, come fonte di insegnamento e l’oggi, l’attualità: ricordare, riflettere, comprendere e proiettare nell’oggi e nel domani quanto si è appreso, senza rimanere incastrati nel tempo.

Il tempo passato è la storia di “Settembre Nero”, poco conosciuta ai più e ignorata nelle scuole: il ricordo sbiadito della strage della squadra israeliana alle Olimpiadi di Monaco nel 1972 e l’attentato all’aeroporto di Fiumicino nel 1973.  L’oggi è rapportare la canzone di De Angelis solo alle sue derive antisemite, tralasciando tutto il resto.

Un resto fatto, per esempio, dalle 32 persone uccise a Fiumicino. Certo, non tutti erano italiani. Ma era sicuramente italiano l’aeroporto, così come italiani erano i servizi segreti impegnati che il 5 settembre sequestrarono i missili palestinesi a Ostia, facendone scaturire le minacce e infine la strage. Scordare questo si traduce in una memoria corta che fa a cazzotti con la questione mai risolta del cosiddetto “Lodo Moro”, in parole semplici il baratto tra libertà d’azione palestinese in Italia e astensione dalle azioni terroristiche sul nostro territorio.

Una memoria scomoda, che secondo una pratica ben nota si preferisce demandare ad altri.

Primo Levi parlava con saggezza di “memoria attiva”, che vuol dire per tutti gli uomini, non solo gli ebrei, assumere i crimini della storia come male fatto a ciascuno di noi, in quanto compresente nella più grande famiglia dell’umanità.  Eppure, il 9 maggio al Quirinale per la giornata in memoria delle vittime del terrorismo non ho sentito nessuna parola in ricordo del cinquantenario della strage di Fiumicino. Neanche un accenno.

Giustamente, si dibatte molto delle stragi di Bologna e Piazza Fontana, ma molto meno di quella di Ustica e davvero molto poco in generale degli attentati di matrice arabo-palestinese. Che però ci sono: solo per citarne qualcuno, i due attentati del 1973 a Fiumicino e i due del 1985 (al Café de Paris in via Veneto e alla Sinagoga di Roma), nei quali un velo d’oblio sembra sceso sulle vittime, seppur “solo” feriti (già, perché non valgono solo i morti).

Ecco quindi riemergere ancora una volta la memoria ebraica, la stessa custode della Shoah, con le stesse dinamiche. E allora mi domando, e chiedo a tutti di domandarci: a quando il passaggio a una collettività universale auspicato da Levi?

Più che il colore della pelle tanto citato in questi giorni, potrebbe essere questo il senso del concetto di italianità. Sono troppo ottimista?

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