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stati uniti

Perché Trump è più forte dopo l’attentato

Che cosa cambia nella corsa alla Casa Bianca dopo l'attentato a Trump. Il commento di Mario Del Pero, professore di Storia Internazionale e di Storia degli Stati Uniti all'Institut d'études politiques - SciencesPo di Parigi

L’attentato a Donald Trump inserisce un’ulteriore, drammatica variabile nell’equazione di questa aspra campagna elettorale. Lo choc è comprensibile; la sorpresa – per chi studia e segue la politica statunitense – molto meno. Negli ultimi 10-15 anni abbiamo infatti assistito a una crescita esponenziale degli atti di violenza politica e di terrorismo interno. Azioni, queste, che hanno colpito anche importanti figure politiche: la deputata democratica dell’Arizona Gabby Giffords, rimasta con gravi danni cerebrali permanenti in seguito a una sparatoria nel 2011; l’importante deputato repubblicano Steve Scalise, gravemente ferito con vari colpi di arma da fuoco nel 2017; la governatrice del Michigan Gretchen Withmer, vittima di un tentato rapimento da parte di membri di una milizia paramilitare che l’FBI riuscì a sventare all’ultimo minuto. E azioni che talora hanno provocato alcune delle stragi più drammatiche dell’ultimo decennio.

Il legame con la natura di un confronto politico vieppiù aspro e polarizzato è chiara e a sua volta ampiamente studiata. Se la controparte cessa di essere un normale avversario politico e diventa un nemico esistenziale e un pericolo per la democrazia statunitense allora tutti i mezzi, inclusa la violenza e l’eversione costituzionale, risultano leciti per impedirgli l’accesso al potere. Lo vedemmo bene quattro anni fa, quando la parte sconfitta – Trump – cercò d’impedire la pacifica transizione dei poteri e avvallò uno degli atti più eclatanti di questa stagione di violenza politica: l’assalto al Congresso del 6 gennaio 2021, che provocò 5 morti e decine di ferite e che avrebbe potuto causare conseguenze ben più gravi.

Troppo poco ancora sappiamo sull’attentatore, la sua biografia, le sue possibili motivazioni, il suo profilo psicologico. Difficile se non impossibile credere però che sia possibile separare il suo gesto da questo contesto politico; non ritenerlo anch’esso espressione dell’intreccio inestricabile che si è venuto a determinare tra polarizzazione, demonizzazione dell’avversario e violenza.

Capiremo col tempo se quanto accaduto aiuterà a ricomporre almeno in parte queste fratture: a riportare unità e coesione in un paese così lacerato e diviso. La storia, vicina e lontana, induce alla cautela se non allo scetticismo. La violenza ha segnato e finanche definito la parabola della democrazia statunitense. La sua crisi recente pare renderla ancor più vulnerabile ed esposta, in un quadro politico dove quella verbale e retorica sembra da tempo essere andata fuori controllo.

Sopravvissuto per un nulla a questo attentato, Trump esce rafforzato politicamente ed elettoralmente. Vede confermati e validati due pilastri della sua narrazione: l’idea cioè di essere al tempo stesso vittima – della giustizia, delle istituzioni, del sistema – e combattente – di un’America tradita dalle sue élite e abbandonata da una politica corrotta e distante. L’immagine dell’ex Presidente col volto insanguinato, che si divincola dagli agenti che gli fanno scudo, espone il suo corpo ad altri possibili colpi e arringa la folla invitandola a “combattere” è potentissima. Trasmette vigore, virilità, coraggio a un popolo – il suo elettorato – che questo invoca; espone ancor più la differenza macroscopica con l’anziana e affaticata fragilità del Presidente Biden. Mette, di fatto, i democratici ancor più in un angolo. Molto potrà accadere di qui al voto del prossimo 5 novembre, ma quel che è accaduto ieri e le immagini che ci consegna sono destinati a condizionare questo ciclo elettorale e, presumibilmente, a restare nella storia.

 

(Estratto dal blog Libertà e impero: gli Usa e il mondo)

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