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Kurdistan

Perché nell’era trumpiana la destra non può non essere un po’ truce. Il pensiero del prof. Gervasoni

La destra fra teorie e realtà. Il commento (non solo su Trump e Johnson) di Marco Gervasoni, docente di Storia contemporanea

Renata Polverini si butta a sinistra. Eh sì, per capire il presente, anche i casi micro possono diventare tipici. E va (forse) con Renzi, perché il centro destra le sembra diventato troppo populista, troppo truce. Francamente, non avevamo mai pensato all’ex segretaria del sindacato Ugl e ex presidente (per poco) della Regione Lazio come alla rappresentante della destra chic, tipo Mara Carfagna, o della destra «aristocratica», teorizzata da Filippo Rossi, un altro che non sopporta Salvini e Meloni, e autore di un libro recente sulla «buona destra». E che tutti e tre siano dati dai giornali in rotta verso Renzi sarà solo un caso.

Si potrebbe chiudere la questione dicendo che la destra «matura», «istituzionale», «non populista», «buona» è sempre quella che piace tanto alla sinistra, soprattutto perché perdente e minoritaria. In genere, la destra chic ed elegante viene utilizzata dalla sinistra, che la loda nel momento in cui ha da assolvere al compito di remare contro la destra maggioritaria; per poi, una volta la bisogna compiuta, abbandonarla al suo destino. La vicenda di Gianfranco Fini è, in tal senso, esemplare, e ancora una volta sarà solo un caso che le tre figure citate abbiano avuto in un modo o nell’altro a che fare con l’ex leader di Futuro e libertà.

Nel passato si affermava che la destra italiana, incarnata da Berlusconi, il «populista» Berlusconi, non era presentabile, e che ne occorreva una «europea». Oggi non lo si scrive più perché quella che sembrava una anomalia italiana, un nostro ritardo, è diventata la norma. La destra ora è truce, o per meglio dire barbarica, ovunque.

Come scrive la columnist conservatrice Miranda Devine sul New York post del 6 ottobre, solo «un barbaro come Trump poteva sfidare l‘establishment progressista come ha fatto lui». Una stoccata a Mitt Romney, il già fallimentare candidato contro Obama, che non possa giorno senza rimproverare il presidente di essere, diremmo noi truce e populista.

E guardiamo all’UK: un etoniano, autore di diversi libri anche di storia antica, in grado di leggere greco antico e latino, Boris Johnson, è stato costretto a diventare barbaro e populista, se vuole oggi incarnare il nuovo conservatorismo inglese, diverso da quello da damerino (ma diciamo pure; da fighetto) della coppia Cameron-Osborne. E c’è da dire che Johnson nel ruolo si trova piuttosto bene.

Scendiamo in Francia. Pensare che Marine Le Pen, cresciuta nel migliori scuole del paese, sia un donna del popolo fa ridere. Ma è in grado di incarnare quel ruolo, cioè di sentire, di entrare in contatto con ceti sociali a lei lontanissimi. Proprio come sapeva fare, in modo ancor più sublime, Berlusconi negli anni d’oro e oggi Trump. E così sanno fare in modo diverso ma convergente Meloni e Salvini: che, come può testimoniare chiunque abba potuto anche superficialmente frequentarli in privato, sono molto meno «barbarici» di quanto appaiano sulla scena pubblica.

Ma questa è la parte che oggi deve recitare la destra, cioè i nazional conservatori, ovunque nel mondo, Devono continuare a essere barbari, e non levigati e corretti, perché l’apparato dei media e della burocrazia, e poi lo «stato profondo», insomma l’establishment, sono assai più coriacei di qualche tempo fa. E richiedono perciò più la sciabola che il fioretto.

A polarizzare la vita politica e sociale, infatti, hanno cominciato proprio l’eurocrazia con le sue politiche fallimentari di stile greco e i media con la loro ideologia dominante del virtue signalling e il culto del diversitario, cioè l’esaltazione delle minoranze.

Ai conservatori oggi il compito di rappresentare le maggioranze: alzando la voce e comportandosi anche in modo sgradevole, se serve. Altro che addomesticare i barbari.

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