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Perché Mario Draghi non seguirà le politiche alla Mario Monti

"Ho l’impressione che l’editorialista del Corriere della Sera, Ferruccio de Bortoli, guardi a Draghi ma in effetti pensi a Monti. Non concordo. Ecco perché". Il commento di Gianfranco Polillo, già sottosegretario all'Economia nel governo Monti

 

Si può dissentire dall’editoriale di Ferruccio de Bortoli, su il Corriere della sera? Certo che sì: non tanto sulle singole considerazioni. Essenziale il richiamo alla debolezza del “capitale umano” italiano, che lo titola. Il vero buco nero di un Paese che si riempie la bocca di green – il settore in cui l’Italia è più avanti di tanti altri Paesi, come mostrano i rilievi della stessa Commissione europea – e tace sul gap crescente che riguarda tutti gli altri temi, in cui si articola il fenomeno dello sviluppo.

È l’impostazione complessiva, che non convince. Si ha l’impressione che l’editorialista guardi a Mario Draghi, ma in effetti pensi a Mario Monti. A quelle politiche dal taglio un po’ estremista, che se da un lato hanno consentito all’Italia di stoppare una crisi finanziaria, che poteva avere effetti devastanti, dall’altro hanno prodotto conseguenze quasi letali. Una soprattuto: la nascita dei 5 stelle come movimento politico, con un’affermazione elettorale di circa il 25 per cento, destinato da quel momento in poi a rendere più drammatica ed incerta la vita del Paese.

Le politiche dell’ex Governatore della Bce non potranno che essere diverse. Con gli spread sui titoli italiani sotto i 100 punti base, rispetto ai 575 della fine del 2011, non avrebbe senso parlare di austerity o di lacrime e sangue. Il che non significa buttare, come in parte è avvenuto fino ad oggi, i soldi dalla finestra, perché tanto la crescita del debito pubblico fa meno paura rispetto al più recente passato. Merito dello stesso Mario Draghi e delle sue politiche monetarie “non convenzionali”.

Il problema dell’allocazione delle risorse rimane cruciale, ma con un affanno minore rispetto al passato. C’è quindi lo spazio necessario per rivedere sia l’istituto di “quota cento” che il reddito di cittadinanza. Per circoscriverne la portata: lavori usuranti da un lato, politiche attive del lavoro, dall’altro. E non semplice sussidio, destinato a incrementare le 50 sfumature di grigio, che caratterizzano il lavoro irregolare. Sullo sfondo, quindi, una fase ben diversa, rispetto agli avvenimenti che portarono alla caduta dell’ultimo governo, presieduto da Silvio Berlusconi.

La prima differenza è fin troppo evidente: sottolineata del resto da tutti gli analisti. Il principale problema del Governo prossimo venturo sarà come programmare, ma soprattutto spendere, i 209 miliardi della Next Generation Eu. Problema di non facile soluzione, considerate le cattive abitudini italiane, nella gestione dei fondi comunitari: una capacità di spesa che non supera il 39 per cento e si traduce nella perdita delle relative risorse a favore dei Paesi concorrenti. Il primo sforzo dovrà pertanto essere quello di selezionare con cura i possibili programmi: guardare alle loro intrinseche qualità, ma anche alla loro effettiva realizzabilità. Tenendo conto del fatto che, in questi frangenti, il meglio può essere nemico del bene.

Il mutamento necessario che questo cambio di passo richiede è evidente. Si deve passare da un atteggiamento “frugale” ad uno non proprio spensierato, ma almeno meno sparagnino. Il problema non è tanto quello della scarsità di risorse, ma del loro migliore utilizzo per far uscire l’Italia da quella specie di fossa del sottosviluppo in cui da anni si è cacciata. La cui profondità è misurata da un tasso di crescita che è agli ultimi posti del mondo civilizzato. In questo, la sapienza di Mario Draghi sarà il vero atout, che il Presidente potrà calare sul tavolo, ogni qual volta si troverà di fronte a richieste stravaganti e contro corrente.

Tutto ciò, è evidente, richiede un salto di qualità nella comprensione dei fenomeni che attanagliano il Paese. Ancora fin troppo avviluppato nei fumi postumi dell’austerità. Se c’è stato un effetto positivo del Covid–19, questo è stato quello di sdrammatizzare il problema del debito pubblico. Che naturalmente continua ad esistere, ma non fino al punto da determinare una sorta di paralisi operativa. La rinuncia ad esplorare qualsiasi altra strada: diversa da quella del contenimento o della stangata di carattere fiscale.

Nella realtà italiana quest’atteggiamento ha generato dei mostri. Ha frenato ulteriormente lo sviluppo, fatto crescere il livello della disoccupazione, minato le basi dello Stato sociale, accentuato ogni squilibrio. A partire da quello tra il Nord del Paese ed il Mezzogiorno. Un bilancio fallimentare: soprattutto non necessario. Dal 2012, l’Italia, a differenza del passato, si è trasformato in esportatore netto di capitali. La pulizia, imposta dalle politiche di austerità, ha espulso dal mercato le realtà più fragili e selezionato nuovi piccoli e grandi campioni, che hanno conquistato posizioni di mercato. Soprattutto, seppur non esclusivamente, all’estero.

In altri momenti si sarebbero seguite politiche di stampo keynesiano. Invece di inseguire tardivamente i precetti anni ‘70 dei Chicago boys, si sarebbe prestato attenzione al forte attivo della bilancia dei pagamenti – in media il 2,5 per cento del Pil all’anno – quale sintomo di un eccesso di risparmio – in media 50 miliardi l’anno – che la carenza di investimenti rendeva superfluo. Si sarebbe, pertanto, tentata una politica di stampo produttivista, con il suo collaterale di riforme, che avrebbe generato sviluppo e contenuto il rapporto debito/Pil. Il tutto non con il senno del poi, ma con quella visione che si nutre di disincanto e di realismo. Si dirà: ma la Germania, l’Olanda, la Danimarca e Lussemburgo hanno attivi valutari più alti. Certo: ma non il livello di disoccupazione italiano. Ed è questo l’elemento che rende insostenibile un “modello di sviluppo”, che abbia quelle caratteristiche.

Cambierà il panorama con Mario Draghi? È da sperarci. Se anche quest’esperimento dovesse fallire, non ci sarebbero altri treni. È bene che le forze politiche, che lo sostengono, ne siano consapevoli. Va bene il travaglio che ne ha accompagno l’adesione. Ma una volta che il dado è stato tratto, bisogna mettere da parte le proprie suggestioni identitarie. E guardare avanti. A quel giro di boa, che l’esperimento Draghi, se avrà successo, potrebbe produrre

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