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Perché l’atomica dell’Iran fa paura anche ai Paesi arabi

Che cosa preoccupa dei progetti dell'Iran. L'analisi di Polillo

Nonostante gli embarghi e le sanzioni, che ne hanno quasi dimezzato l’estrazione, l’Iran resta il nono Paese produttore di petrolio. Con una potenza di circa 3,3 milioni di barili al giorno. In larga misura destinati alla Cina e agli altri Paesi del Sud Globale. Enormi poi i suoi giacimenti, valutati al terzo posto della classifica mondiale, subito dopo Venezuela ed Arabia Saudita, con un carico pari a 208 miliardi di barili. Bisogna partire da qui per comprendere il grande bluff del regime degli Ayatollah, fin dai tempi di Khomeini, di cui oggi Ali Khamenei è il legittimo erede.

La domanda, che attende risposta, è di una semplicità disarmante. Un Paese, che ha quel ben di Dio nelle proprie viscere e livelli di consumo relativamente modesti, che deve farsene di una o più centrali nucleari? Vuole ottenere energia a prezzi più competitivi? Deve risparmiare risorse pubbliche? Difficile crederci. Un simile ragionamento può valere per l’Italia, o come avvenuto in Francia (dopo aver cancellato dal conto il costi per lo smaltimento delle scorie). Ma nelle condizioni precedentemente indicate l’evidenza porta a conclusioni diametralmente opposte. Quelle centrali semplicemente non servono. A meno che non siano il paravento per una scelta militare. Per giungere cioè alla costruzione di una bomba.

Questo è stato fin dall’inizio il ragionamento di Israele. Suffragato dalle indagini del Mossad, chiamato semplicemente a fornire gli indizi necessari per confermare l’esistenza della logica stringente di un’operazione tutta politica. Operazione di potenza, per i discendenti degli antichi Persiani, e della loro vocazione egemonica nel triangolo rappresentato dallo stesso Iran e quella parte dell’Asia centrale compresa tra l’Afganistan ed il Tagikistan. A loro volta Sciiti, seguaci di Talib, cugino e genero di Maometto, in quanto suo legittimo successore designato dallo stesso profeta. Ma nemici dei Sunniti, il più grande ramo dell’Islam, che raggruppa circa l’85 per cento dei musulmani. Un contrasto esplosivo, come avvenne in Europa agli inizi del 1600 tra cattolici e protestanti.

Conquistare il monopolio nucleare nella regione avrebbe cambiato, in un solo momento, rapporti di forza che si trascinavano da secoli. Avrebbe messo in allarme la Turchia, con il suo dualismo interno: mezza Ataturk e mezza Erdogan. Dato spazio alle milizie sciite, presenti in Iraq. Impensierito oltre modo l’Arabia Saudita, la cui monarchia è stata sempre una bestia nera per i capi sciiti. Ed infine minacciato direttamente Israele – “l’entità sionista” come dicono i grandi sacerdoti di Teheran – destinata, secondo quei proclami, ad essere semplicemente spazzata via.

Quelle centrali, più che per produrre energia, servivano soprattutto per arricchire l’uranio, al fine di trasformarlo nel nucleo centrale della futura bomba. Un arricchimento che, stando a quanto si dice, aveva raggiunto quota 60 per cento. Ad un passo dall’obiettivo finale. Che, in un primo momento, si era cercato di bloccare con incontri diplomatici, ai quali avevano partecipato gli stessi Stati Uniti. Ma erano incontri costruiti sul modello russo. Parliamo, facendo finta di trattare. Ma intanto l’esercito di Mosca bombarda con missili e droni Kiev e le altre città di quel martoriato Paese. Oltre lo scorno, la beffa.

Alla fine Netanyahu ha deciso di mettere fine a quel balletto. Si può discutere a lungo se abbia fatto bene o male. Se non si potevano cercare altre vie. Se i problemi politici interni – la sopravvivenza dello stesso Bibi come capo del Governo – abbiano o meno avuto un peso prevalente. Alla fine, come nell’antica storia di Roma, “alea iacta est”. Il dado è stato tratto. E solo il futuro dirà se quella decisione sarà stata lungimirante. Quello che, invece, fin da adesso è chiaro è il pieno coinvolgimento di Israele in quella sorta di guerra dei trent’anni che, in quei territori, divide da sempre le diverse componenti religiose.

Israele ha scelto il mondo sunnita, offrendogli lo scalpo del capo degli sciiti. Un movimento, quest’ultimo, non solo religioso. Ma portatore di una concezione teocratica dello Stato – si direbbe in Occidente – in cui potere religioso e potere politico si mescolano in un intreccio inestricabile. Dando luogo alla formazione di regimi che hanno più le caratteristiche dell’antico Medio Evo, che non la modernità di quei sistemi che sanno dare a Cesare quel che è di Cesare. Senza per altro negare l’importanza della religione.

L’anello di congiunzione che ne é derivato è stato, pertanto, di straordinaria importanza. Al punto dall’aver spinto Friedrich Merz a dire, tra i denti, che “Israele sta facendo il lavoro sporco per l’Occidente”. Scandalizzate rampogne da parte de Il fatto quotidiano. Ma se si ragiona, la cosa appare meno sconvolgente. Cosa dovrebbe fare l’Occidente: augurarsi il contrario? Plaudire alla santa alleanza “Iran, Russia, Corea del Nord e Cina” con le loro appendici di Hamas, Hezbollah e Huthi? Mentre la Wagner, ormai trasformata in un’appendice dell’armata russa, opera in Libia e nel Sahel.

Certe affermazioni portano, paradossalmente, a rivalutare la figura di Donald Trump. Che una cosa ha capito. Occorreva fermare quella che poteva sembrare l’avanzata di un’”invincibile armada”. L’idea cioè che quei Paesi, con il semplice uso delle armi, potessero violare regole internazionali, conquistare nuove terre, sabotare i commerci mondiali, cancellare Stati non graditi dalla faccia della Terra. Mostrare la bandiera, facendo vedere tutta la superiorità tecnologica e militare degli Stati Uniti, in azioni da taluni ritenute ridondanti, é stato il duro avvertimento contro coloro che già immaginavano un Occidente decadente. Pronto per essere emarginato.

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