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Perché la Turchia flirta con Russia, Iran e Cina

La Turchia è una grande potenza regionale, ma per trasformarla in potenza globale Erdogan rafforza i rapporti con Russia, Iran e Cina. L'analisi di Michele Marsonet, docente di Filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane Università di Genova

È noto che Recep Tayyip Erdogan ambisce a presentarsi come erede legittimo di Mustafa Kemal Ataturk, il fondatore della moderna Turchia. Con l’eccezione, ovviamente, del laicismo che il “padre dei turchi” introdusse e che Erdogan invece aborrisce. Eppure, agli inizi della sua carriera politica, si era presentato come un moderato attento all’insegnamento di Ataturk e disposto a continuare, pur in modo diverso, la sua strategia di laicizzazione dello Stato.

Gli avvenimenti recenti, con l’invasione del territorio siriano per neutralizzare i curdi e il successo militare in Libia – potenzialmente dannoso per gli interessi italiani – ci riporta alla vera natura del suo progetto, che contempla un mix di islamismo tradizionale e nazionalismo turco. Nonostante le apparenze, è quest’ultimo a prevalere, giacché Erdogan non rinuncia al sogno di riportare in vita, pur adattandolo al tempo presente, l’impero ottomano.

Sembrerebbe un’utopia priva di fondamento ma, a ben guardare, vi sono elementi che possono far pensare alla sua realizzabilità. Occorre solo tener conto che le lingue di ceppo turco, e le culture ad esse correlate, non sono diffuse soltanto nel territorio nazionale, ma anche in molte aree asiatiche tra cui l’Azerbaijan, il Turkmenistan, il Kazakistan e altre repubbliche ex sovietiche dell’Asia centrale (con l’ovvia esclusione dell’Armenia). Parlano una lingua turca anche gli uiguri dello Xinjiang, popolazione musulmana le cui tendenze indipendentiste vengono duramente represse dal governo di Pechino che ha riempito il territorio di “campi di rieducazione”.

Erdogan sfrutta questa situazione promuovendo l’espansione culturale tra le popolazioni turcofone stanziate al di fuori dei confini nazionali, e finanziando al contempo la costruzione di moschee nei Paesi che le ospitano. Notevole anche l’opera di proselitismo tra gli emigrati nelle nazioni europee, in primo luogo la Germania, e in Paesi come l’Albania che anche dopo l’indipendenza hanno conservato un forte legame con Istanbul.

Di conserva promuove la rivalutazione delle grandi vittorie, militari e politiche, conseguite dall’impero ottomano. In primo luogo la cancellazione dell’impero bizantino con la conquista di Costantinopoli, divenuta poi Istanbul, e poi la vittoria ottomana su francesi e inglesi a Gallipoli durante la Prima Guerra Mondiale (l’episodio bellico, per inciso, che rese celebre Ataturk).

Tuttavia, anche le sconfitte ottomane vengono viste quali occasioni di rivincita postuma, per esempio la battaglia di Lepanto, la mancata conquista dell’isola di Malta difesa dai Cavalieri di San Giovanni e la sconfitta delle truppe ottomane giunte sotto le mura di Vienna nel 1683. Erdogan, insomma, ha in mente la “Grande Turchia” identificata con l’impero ottomano e, non a caso, in un discorso ha detto: “Siamo una grande famiglia di trecento milioni di persone dall’Adriatico alla Grande Muraglia cinese”.

Questo progetto panturco è supportato da un’economia che, pur mostrando segnali di crisi, continua a crescere, e da una potenza militare rimasta intatta anche dopo l’epurazione di alti ufficiali seguita al fallito golpe del 2016. Ed è la base dell’attuale diffidenza turca nei confronti dell’Occidente e della Nato, alleanza di cui la Turchia fa tuttora parte ma con un profilo assai più defilato rispetto al passato.

Occorre comunque chiedersi sino a che punto le ambizioni di Erdogan siano realmente fondate. La Turchia è indubbiamente una grande potenza regionale, ma per trasformarla in potenza globale ci vuole ben altro. Erdogan in fondo lo sa, e infatti cerca di bilanciare l’allentamento delle relazioni con l’Occidente rafforzando i rapporti con Russia, Iran e Cina (nonostante la già citata persecuzione degli uiguri da parte di Pechino).

Inoltre il leader turco ha 66 anni, e per ora non sono comparse nel suo partito AKP (Giustizia e Sviluppo) personalità altrettanto carismatiche in grado di portare avanti le sue ambizioni globali. Senza scordare che in Turchia c’è una forte dicotomia città/campagna. Le campagne anatoliche votano Erdogan in blocco, mentre le grandi città come Istanbul e Smirne gli sono in maggioranza ostili. E anche questo è un segnale che il suo sogno neo-ottomano non è facilmente realizzabile.

Eletto anni fa come espressione dell’Islam moderato e conciliante, Erdogan ha poi radicalizzato sempre più le sue posizioni, e ora non si comprende bene quale sia la posizione della Turchia nello scenario internazionale.

Un tempo era un membro fondamentale della Nato, con l’esercito che garantiva la fedeltà all’alleanza e la laicità dello Stato voluta da Ataturk. Adesso i generali, tanto vituperati dai media occidentali, sono stati in pratica eliminati dalla scena, mentre esercito e polizia seguono senza batter ciglio le direttive del presidente. Di qui la politica ambigua nei confronti del fondamentalismo islamico, e il rifiuto della richiesta Usa di utilizzare le basi aeree turche per facilitare i raid aerei in territorio siriano.

Nessuno però si aspettava che l’autoritarismo di Erdogan si spingesse fino al punto di voler ridisegnare la storia del mondo intero. Invece sta andando proprio così. In occasione del primo Forum dei musulmani dell’America Latina tenutosi a Istanbul, il leader di Ankara ha proclamato con invidiabile sicurezza che l’America non è stata scoperta da Cristoforo Colombo, bensì dagli stessi musulmani.

Basandosi su alcuni scritti di un ricercatore della Al-Sunnah Foudation of America, il premier turco sostiene che l’ammiraglio genovese trovò in quella che attualmente è l’isola di Cuba una moschea. Scordando di essere un politico e non uno storico delle esplorazioni geografiche, ha inoltre aggiunto che navigatori musulmani sbarcarono in America nel 1178, fondando delle colonie di fedeli dell’Islam.

Ovviamente le prove non ci sono e, in ogni caso, si può sempre notare che i Vichinghi arrivarono prima. È chiaro che l’intento del leader turco è soltanto politico e propagandistico. Gli preme ribadire la superiorità islamica in ogni possibile campo, e in tal senso pure la storia piegata ai propri fini può essere un utile strumento.

Resta da capire se tutto ciò causerà problemi di conflitti religiosi anche nella cattolica America Latina, e soprattutto fino a che punto Erdogan si spingerà per promuovere la sua immagine di leader islamico globale.

Michele Marsonet

(docente di Filosofia della scienza e metodologia delle scienze umane Università di Genova)

Articolo pubblicato su Atlantico Quotidiano. 

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