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Taiwan

Perché la Cina piange a Taiwan

Vittoria schiacciante del presidente in carica Tsai Ing-wen nelle elezioni a Taiwan e delusione della Cina. L’approfondimento di Marco Orioles L’imbarazzo della scelta, nel commentare l’esito delle elezioni presidenziali a Taiwan di sabato scorso, è se definirle uno schiaffo sonoro a Pechino o ben 8,2 milioni di ceffoni indirizzati alla stessa Repubblica Popolare. Perché gli…

L’imbarazzo della scelta, nel commentare l’esito delle elezioni presidenziali a Taiwan di sabato scorso, è se definirle uno schiaffo sonoro a Pechino o ben 8,2 milioni di ceffoni indirizzati alla stessa Repubblica Popolare.

Perché gli 8,2 milioni di voti con cui Tsai Ing-wen e il suo Democratic Progressive Party hanno conquistato la riconferma alla massima carica dello Stato e fatto anche il pieno di voti allo Yuan, il parlamento, rappresentano – oltre che una vittoria personale per una leader che solo pochi mesi fa era data per spacciata e finisce invece per intascare più voti di quanti ne abbia mai ottenuto un candidato nelle sette elezioni presidenziale tenutesi da quando il Paese è diventato una democrazia liberale – anche il più fragoroso dei “no, grazie” a quella ex madrepatria che, dall’altra parte di uno degli stretti più militarizzati al mondo, pretende l’immediata riannessione dell’isola ribelle.

Quello di sabato è stato, in altre parole, un trionfo netto per la linea indipendentista di cui Tsai è il campione indiscusso, sancito peraltro non soloi da una partecipazione al voto che ha toccato il livello record del 74%, ma anche dalla capacità del DPP di espugnare le roccaforti dei rivali nazionalisti.

Ed è stato, specularmente, uno smacco per il principale sfidante di Tsai, il sindaco populista Han Kuo-yu, il cui misero 38,6% restituisce la misura di quanti, laggiù, condividano la posizione dialogante e aperturista del suo partito nei riguardi di Pechino e non temano invece come la peste le continue ingerenze, le intimidazioni, e la barbarie diplomatica con cui il Dragone tratta e bistratta i recalcitranti taiwanesi.

“Posso s0lo dire”, ha dichiarato Han sabato pomeriggio ammettendo la sconfitta, “di non aver lavorato sufficientemente sodo per soddisfare le aspettative di tutti”.

Quanta verità, nelle parole di un candidato che nulla ha potuto di fronte all’abilità della rivale di convincere gli elettori del pericolo posto da una superpotenza che si sta armando sino ai denti anche in vista dell’invasione di Taiwan (e della conseguente guerra con gli Usa e i suoi alleati del Pacifico che automaticamente si innescherebbe). E che, con la subdola arma di generosi finanziamenti e di ogni altra lusinga economica e politica, ha scippato all’isola uno dopo l’altro i residui alleati che a tutt’oggi la riconoscono alle Nazioni Unite – sono ormai solo 15 – in luogo della Repubblica Popolare.

Molto, nella vittoria di Tsai, deve essere attribuito proprio alla protervia di Pechino e, soprattutto, alle sue ingerenze in questa campagna elettorale che hanno preso la forma delle ormai classiche campagne di disinformazione online, ma anche del duplice e quanto mai minaccioso passaggio nello stretto della prima portaerei made in China, la Shandong, battezzata appena poche settimane fa.

Un messaggio ben poco equivocabile come i tanti partiti da Pechino nei quattro anni di governo di Tsai, piagati da un pressing senza precedenti da parte del regime, decisosi a contrastare la retorica indipendentista di Tsai con una sequenza choc di misure punitive anche di tipo economico come, tanto per citare una delle più odiose, il blocco di tutti i flussi turistici in uscita dalla madrepatria verso l’isola.

Tentativi tuttavia falliti miseramente, visto che nel quadriennio di Tsai l’economia dell’isola ha non solo fatto parecchi balzi in avanti, ma ha visto il più drastico abbassamento della disoccupazione nella storia di Taiwan (oggi siamo appena al 3,8%) e un cospicuo aumento dei salari.

Il deflagrare della guerra commerciale tra Washington e Pechino ha inoltre riportato nell’isola numerose imprese manifatturiere che anni addietro avevano fatto le valigie, e questa per la Cina è a dir poco una beffa dolorosa.

Ma la molla più poderosa nel sospingere i taiwanesi a riporre nell’urna il proprio voto a favore di Tsai sono stati gli eventi della vicina Hong Kong, inesorabilmente considerati la rappresentazione plastica del destino riservato a chi avesse l’imprudenza di bersi la favola denominata “un paese, due sistemi” raccontata dai dirigenti della Repubblica Popolare.

Immedesimandosi nei combattenti mascherati per la libertà che a Hong Kong da mesi stanno sfidando l’autoritarismo comunista, i taiwanesi hanno pensato bene non solo di esprimere loro solidarietà, ma di spiegare a chiare lettere a Pechino che loro, di fare quella fine, proprio non ne sentono il bisogno.

Molto del miracolo elettorale di Tsai si deve perciò all’autentico timore di una nazione di perdere quelle libertà democratiche che nella terraferma sono sconosciute mentre a Taiwan hanno visto addirittura l’approvazione, Tsai regnante, di una legge sulle unioni omosessuali.

Timore che Tsai ha cavalcato fino all’ultimo minuto, pronunciando un discorso durante la manifestazione di chiusura della campagna elettorale in cui ha tessuto le lodi dei “giovani di Hong Kong che hanno usato le loro vite, il loro sangue e le loro lacrime per mostrare a noi che ‘un paese, due sistemi’ è impossibile”.

Parole che hanno sortito il loro effetto il giorno dopo, permettendo a Tsai di celebrare una vittoria storica dichiarando, durante la conferenza stampa post-elettorale nella capitale Taipei, che Taiwan aveva appena “mostrato al mondo quanto noi siamo affezionati al nostro stile di vita democratico”.

In quello stesso momento, qualche centinaio di chilometri a Est delusione e rabbia si spargevano a macchia d’olio, impregnando il comunicato Xinhua che comunicava la notizia della rielezione di Tsai in quanto “leader della regione di Taiwan”.

Poche ore dopo, i toni da Pechino si facevano assai più aspri, spingendo il portavoce del Dipartimento per gli Affari di Taiwan China, Ma Xiaoguang, a vergare un comunicato di fuoco che, senza menzionare per nome la rieletta presidente di Taiwan, ammoniva contro ogni “cospirazi0ne separatista” a Formosa.

La chiusa l’avrebbe quindi fornita poco più tardi il Ministero degli Esteri cinese. “Non importa quanti e quali cambiamenti ci siano nella situazione interna di Taiwan” – recita il comunicato emesso in serata dal dicastero – “il punto è che esiste una sola Cina nel mondo e (il fatto che) Taiwan sia parte della Cina non cambierà. (Né) cambierà il consenso universale della comunità internazionale che aderisce al principio dell’una sola Cina”.

Palpabile, invece, la soddisfazione degli alleati di Taiwan, a cominciare dal Giappone che, attraverso il ministro degli Esteri Toshimitsu Motegi, si è congratulato con Tsai riferendosi a Taiwan come un “amico prezioso”, per finire con il Segretario di Stato Usa Mike Pompeo che, da buon trumpiano, si è rallegrato della buona notizia sui social dei 280 caratteri:

 

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