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Tunisia

Perché in Afghanistan la teoria dello state building non ha funzionato

L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Ma come abbiamo fatto ad infilarci in questo disastro? Solo “fiasco” americano, come scrive il Financial Times, a proposito dell’Afghanistan, o qualcosa di più profondo? Occorrerà tempo per elaborare il lutto. Nel frattempo è necessario fare tutto il possibile per aiutare coloro che sono le vittime sacrificali di taleban e macellai jihadisti. E riavvolgere il nastro. Tornare, se possibile all’origine, per vedere al rallentatore i momenti più salienti di quella vicenda che ha portato ad un secondo Vietnam.

La prima considerazione riguarda la teoria dello “state building”. Non ha funzionato. Era stata la grande risorsa della politica estera americana. Grazie ad essa la Germania post nazista ed il Giappone imperiale erano stati recuperati ad una prospettiva liberal democratica. Le nuove strutture politiche, imposte sia con il soft power che con l’occupazione militare, avevano segnato una discontinuità profonda con l’esperienza appena tragicamente trascorsa. L’idea era quella che, grazie alla pressione dall’esterno, si potesse in qualche modo dare al “legno storto” della storia la direzione voluta.

Nella Corea del Sud era avvenuto lo stesso miracolo, mentre il resto del Paese sprofondava sotto la dittatura comunista. Ma non nel Vietnam: territorio in cui la lotta di liberazione nazionale dei Viet Cong si era saldata con le grandi contraddizioni della “guerra fredda” e dello scontro tra est ed ovest. Mentre a Cuba, anni prima, l’Occidente non aveva capito la spinta rivoluzionaria di Fidel Castro contro Fulgencio Batista, di fatto consegnandolo al campo socialista. In un epoca diversa, a seguito del dissolvimento della Jugoslavia post-Titina, il tentativo di mettere ordine nella polveriera balcanica, ricorrendo alla stessa strategia, aveva dimostrato tutte le sue debolezze.

Quale il denominatore comune tra queste diverse esperienze? Il rapporto che deve necessariamente coesistere tra lo “state” e la “nation building”. Il secondo presupposto del primo, pena il fallimento dell’intera operazione. Come mostrerà proprio in questi giorni il disastro afghano, destinato a bissare quello iracheno di qualche anno fa. Episodi non solo storicamente, ma logicamente, legati. L’invasione dell’Afghanistan da parte degli Usa rappresentò, infatti, una reazione all’ospitalità accordata da quel Paese ad Osama bin Laden, responsabile degli attentati alle Torri gemelle, venti anni fa. Non a caso (vedremo subito perché) fondamentalista sunnita. In precedenza, George Bush figlio aveva invaso l’Iraq, ancora oggi non si capisce bene per quale ragione. Per esportare la democrazia? Per distruggere le armi di distruzione di massa, mai trovate? Per connivenza con i terroristi dell’11 settembre? E Saddam era sunnita.

L’unica cosa certa è che non fu una cosa intelligente. Tanto più che suo padre, George Bush senior, dopo aver impedito agli Iracheni di occupare il Kuwait, si guardò bene dal detronizzarlo, non essendo prevedibili le possibili conseguenze. Ma per tornare a bomba: cos’erano l’Iraq, ma anche la Siria, prima di quella scelta infelice? Indubbiamente due Paesi dominati da regimi dittatoriali – quello di Saddam e della famiglia Assad – ma qui siamo all’epilogo di una storia ben più complicata.

Iraq e Siria sono state accumunate fin dall’inizio da uno stesso destino. Gli accordi segreti di Sykes.Picot (dal nome dei due negoziatori: inglese e francese) nello spartirsi i resti del vecchio impero ottomano (maggio del 1916) prevedevano, tra l’altro, la nascita della grande Siria, sotto l’egida francese. Cosa, fin dall’inizio, poco gradita agli inglesi, che mal tolleravano la presenza francese nelle proprie colonie che, in Asia, includevano anche i territori dell’Afganistan.

Sta il fatto che quando si trattò di dare attuazione agli accordi sottoscritti, nel 1921, gli inglesi, d’intesa con la Società delle nazioni, con un colpo di mano, unirono i distretti (vilayet) di Bagdad, Bassora e Mosul in un nuovo regno, sotto il loro mandato, incoronando re Faisal Primo. Si trattò di una vera e propria invenzione. Le provincie di Bagdad e di Bassora erano siriane, mentre Mosul, dove saranno scoperti ingenti giacimenti di petrolio, apparteneva ai curdi. Il nuovo Stato, come in molti altri casi della storia dell’imperialismo, nasceva per segnare l’armistizio tra i contrastanti interessi delle principali potenze europee.

Nonostante tutto, le cose andarono avanti per oltre trent’anni. Poi, nel 1952, la “rivoluzione” in Egitto di GamālʿAbd al-Nāṣer, dimostrò che le cose potevano cambiare. Ben presto il sogno di un nazionalismo dai risvolti panarabi, investì Paesi diversi, spingendoli a liquidare le vecchie classi dirigenti, più compromesse con l’imperialismo dei Paesi europei. In Iraq ed in Siria questo movimento di riscossa nazionale ebbe come protagonista il Baath (il partito del Risorgimento arabo socialista). Era nato fin dal 1947. Ma rimasto sostanzialmente in sonno per un lungo periodo. Sorto in Siria, si era ben presto diffuso anche in Iraq, dove, appunto, le affinità storico – culturali erano quelle alle quali si è accennato in precedenza.

Nel 1952, sull’onda del nasserismo, il numero dei suoi militanti era notevolmente cresciuta, senza per altro perdere quella caratteristica originaria di associazione multietnica: sunniti, sciiti, cristiani e curdi. Nel 1956 si era verificata la scissione tra il Baath iracheno (più di destra) e quello siriano (più socialisteggiante). Da allora le prospettive divergeranno, dando luogo a distinte storie nazionali. Tutte caratterizzate, tuttavia, da una forte laicità che porterà entrambi i partiti a contrapporsi duramente alle manovre dei Fratelli musulmani. Che anche in Siria ed in Iraq, oltre che in Egitto, cercavano di imporre una svolta in senso confessionale.

Senza voler fare la storia di queste due formazioni politiche e la loro progressiva degenerazione verso forme di potere assoluto (Saddam da un lato, Assad dall’altro), vale solo la pena ricordare che dalla loro crisi nacque una svolta radicale in tutto il mondo arabo e non solo. Il passaggio da forme di lotta politica, comunque riconducibili ad un sentimento nazionale, verso lo scontro tra le diverse componenti storiche dell’Islam. Non più iracheni contro siriani; ma sunniti contro sciiti. E poi la presenza di Wahhabiti, salafiti e via dicendo. Fino a dar luogo ad una sorte di “guerra dei trent’anni” come fu quella che insanguinò l’Europa agli inizi del 1.600. Guerra inizialmente causata dallo scontro tra cattolici e protestanti, ma ben presto trasformatosi in conflitto generale (franco – asburgico) per la conquista delle spoglie del ex “Sacro romano impero”.

Attribuire a George Bush jr. la responsabilità di tutto ciò sarebbe eccessivo. Ma altrettanto sarebbe trascurare il suo contributo specifico a questo cambiamento di fase, destinato a colpire a morte ogni teoria dello “state building”. A meno di non tentare di dar luogo a organizzazioni di tipo teocratico, come quella iraniana. Oppure in quei territori a maggioranza sciita, come lo stesso Iraq, l’Azerbaigian o il Bahrein. Non essendo i sunniti disposti a sottomettersi al potere temporale degli imam.

Per ritornare, ora, all’Afghanistan ed ai motivi del fallimento della presenza occidentale, la spiegazione sta nella compresenza in quel territorio di ben 11 differenti etnie. Nella mancanza di vie di comunicazioni in grado di unificare il Paese, creando un barlume di sentimento nazionale. Che qualora nascesse, potrebbe comunque implicare la necessità di ridisegnare la mappa geografica della zona, dal momento che il gruppo etnico più numeroso, i Pashtum vive a cavallo tra l’Afganistan ed il Pakistan. Ecco, allora, perché l’ipotesi di esportare la democrazia, in quella langa sperduta, mancando ogni presupposto, ma puntando ugualmente sullo “state building”, si è dimostrata fallimentare. Tanto più a causa del fatto che si doveva partire dall’esercito, proprio per contrastare la presenza taliban. Totale avventurismo pagato a caro prezzo.

Come se ne esce? Difficile fare previsioni. Al momento non c’è altro da fare che cercare il massimo coinvolgimento internazionale, tenendo tuttavia conto delle contraddizioni che tuttora esistono tra i soggetti principali (le grandi potenze) e quelli regionali. La prossima riunione del G20, sotto la presidenza italiana, al cui successo Mario Draghi sta lavorando con tanta energia, può essere un buon inizio. Sempre che poi si abbia la capacità di comprendere gli insegnamenti della storia.

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