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La guerra nel Pd per il dopo Zingaretti alla Regione Lazio

Che cosa succede davvero nel Pd (non solo romano). L'analisi di Gianfranco Polillo

 

“Quer pasticciaccio brutto” di Frosinone, che ha portato a dimissioni a catena, rischia di essere una vera e propria solfatara. I cui effluvi stanno rendendo irrespirabile l’aria del PD romano e laziale. Non passa giorno, infatti, che non ci sia qualcuno che, facendosi intervistare da qualche quotidiano nazionale, voglia dire la sua. E così facendo metta il dito nella piaga, facendo emergere il fondo limaccioso di un partito che ha smarrito, da tempo, ogni sua identità unitaria.

L’ultima presa di posizione – prima pagina del Corriere della sera – è stata quella di Sara Battisti, consigliera regionale del PD, nonché compagna di Albino Ruberti, l’ex capo di gabinetto di Roberto Gualtieri, il sindaco di Roma. Dalle cui intemperanze verbali tutto era cominciato. Per la verità, ancora oggi non sono chiari i contenuti effettivi della vicenda. Al punto che la magistratura si è sentita in dovere di aprire un fascicolo. Ma al di là dei possibili sviluppi, diversi protagonisti della vicenda hanno già perso il posto. Lo ha perso Rocky, alias Albino Ruberti. Lo ha perso l’euro parlamentare Francesco De Angelis, che non sarà più candidato alle politiche. E forse suo fratello Vladimiro, il broker assicurativo, che, almeno finora, aveva fatto affari milionari con numerosi enti pubblici della Regione.

Le nuove accuse della compagna di Rocky sono state ancora più destabilizzanti. Il linguaggio è ermetico, ma il significato inequivocabile. Rispondendo alla domanda di Virginia Piccolillo, che accenna ad un possibile “ricatto”, afferma “No, io e Albino siamo trasparenti. Diciamo sempre la verità, forse scomoda per qualcuno». Per poi precisare: “provo un dispiacere profondo all’idea che qualcuno possa aver costruito ad arte questa cosa per colpire qualcun altro. Qualcuno magari persino nel mio partito.” Insomma una sorta di manovra, se non una vera e propria congiura.

Ed in effetti gli elementi del giallo ci sono tutti. La corsa è a sostituire Nicola Zingaretti, candidato alle politiche. Tre i possibili contendenti: Daniele Leodori, attuale vice presidente alla Regione, area Dem (Dario Franceschini, e nel Lazio: Bruno Astorre e Michela De Biase), candidatosi alle primarie, osteggiato, tuttavia dalle altre correnti del PD, Goffredo Bettini in testa. Alessio D’Amato, l’attuale assessore alla sanità, sceso in campo da tempo per tesaurizzare i successi della campagna vaccinale. Appoggiato e spinto da Esterino Montino, sindaco di Fiumicino, e da sua moglie Monica Cirinnà, senatrice, storico personaggio di “sinistra” del PD romano. Ed infine Enrico Gasbarra, come terzo incomodo. Soprattutto per sparigliare ed azzerare le precedenti false partenze.

In questa confusa geografia politica non è facile stabilire chi sta con chi. I gossip ed i retroscena sono numerosi, ma la loro contraddittorietà fa pensare più alle “veline” di questo o di quel concorrente. Piuttosto che alla realtà dei fatti. Si dice, ad esempio, che D’Amato sia in cordata con Leodori. Altri smentiscono. Stessa cosa per Enrico Letta, che sosterrebbe Gasbarra. E infatti a Frosinone questi elementi si sono agitati e confusi come in uno shaker, con i risultati che si sono visti nella contesa che “infiniti lutti addusse” non agli Achei. Ma a quella parte, sempre meno, che ancora si riconosce nelle vecchie parole d’ordine della sinistra.

Si fosse trattato di un singolo episodio, poteva essere derubricato a faida locale. Ma prima di quest’ultimo “pasticciaccio” c’era stato il caso di Ignazio Marino, soprattutto le accuse roventi di Nicola Zingaretti, contro il predominio delle correnti interne. E le conseguenti sue dimissioni da segretario del partito. Riavvolgendo il nastro, in principio era stato Ignazio Marino, sindaco della Città eterna. Personaggio controverso. Spinto da un protagonismo assoluto, al punto da provocare – caso unico nella storia dei rapporti con la Santa sede – una reazione stizzita da parte di Papa Francesco. Ma anche persona al di fuori del gioco delle correnti e quindi destinato a perdere. Sarà fatto fuori dai suoi stessi consiglieri di partito – cosa poco dignitosa – costretti a dimettersi in blocco di fronte ad un notaio, per provocarne la caduta.

Ci sarebbe anche potuto stare. Considerata la caratura del personaggio. Ma ecco che, seppure a distanza di qualche anno, Zingaretti che butta la spugna, denunciando l’ingovernabilità del partito, dominato da una permanente guerra per bande. La ragione per cui, alla fine, i Dem saranno costretti a ricorrere ad un papa, nel frattempo divenuto straniero, come Enrico Letta, piuttosto che tentare le insidie di un possibile congresso per definire una nuova leadership. Il ritorno a casa dello sconfitto da Matteo Renzi avrebbe consentito di rinviare a momenti migliori il trauma del necessario chiarimento interno.

Se si sommano i singoli episodi, la crisi del partito appare evidente. Sintomo forse di quell’amalgama non riuscito di cui parlava Massimo D’Alema, qualche tempo fa? Ossia dell’ingresso degli ex DC di sinistra, nel partito di Gramsci e Togliatti. In effetti, la loro presenza ne ha alterato le caratteristiche, a partire dal dato culturale. Il solidarismo, ch’era il contenuto essenziale di quell’esperienza politica, si è saldato soprattutto con la componente di sinistra del partito, rendendo sempre più marginale la presenza dei riformisti. Provocando una sorta di terremoto antropologico, rispetto ad una più vecchia tradizione.

In precedenza, nella storia del PCI, l’idea centrale era stata sempre quella di un “solidarismo sostenibile”. La difesa dei ceti più deboli considerata come una bussola, ma nel contesto di un più generale equilibrio economico e finanziario. L’obiettivo era garantire il loro benessere relativo, ma senza distruggere i meccanismi dell’accumulazione di capitale. Un delicato equilibrio, appunto, che richiedeva di contenere l’arbitrio del mercato ma, al tempo stesso, una presenza equilibratrice dello Stato. Tant’è che con la prima crisi petrolifera, ed in conseguenza dei fatti del colpo di stato in Cile, lo stesso Berlinguer non aveva esitato a proporre l’ipotesi di un “compromesso storico”. La cui ricaduta, in termini economici, come si ricorderà, era quella dell’austerity. Il sacrificio degli interessi più immediati, per una prospettiva strategica ben più grande ed impegnativa.

Il neo solidarismo dell’attuale PD ha spazzato via tutto questo. Le varie correnti del partito hanno esaltato i momenti della semplice rappresentanza, ricercando i propri terminali nella società civile. Ne è derivata una geografia a macchia di leopardo che ha reso più difficile, se non impossibile, qualsiasi sintesi politica. E con essa sia l’ipotesi stessa di una gestione unitaria del partito, che una qualche visione di carattere nazionale. Ed ecco allora che gli episodi, ai quali si è fatto cenno, non possono essere più considerati tali. Diventano, al contrario, il sintomo più vistoso di un male più profondo, che non sarà facile curare.

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